Ho comprato mio figlio e volevano che lo abortissi perché era venuto male

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Storia di A. scritta da Ida Giangrande

Dopo la fecondazione eterologa ho scoperto che il bambino che aspettavo era affetto da Sindrome di Down. Potevo buttarlo via e fabbricarmene un altro. Questa era l’idea di tutti, ma non era il mio progetto.

Non c’è molto da dire su di noi. Eravamo una coppia come tante altre, con ambizioni e progetti comuni a molte altre coppie. Ci siamo sposati dopo nove anni di fidanzamento. Un periodo lungo, fatto di regolarissimi e costanti rapporti sessuali. Qualche volta ho temuto di essere rimasta incinta, ma poi… ecco soggiungere la mestruazione e, con un sospiro di sollievo, mi buttavo alle spalle paure e domande. Solo dopo il matrimonio ho capito perché non ero mai rimasta incinta. 

Abbiamo cominciato a provarci quasi subito. Volevo un figlio e lo volevo ad ogni costo, ma non arrivava. Non arrivava mai. Ogni mese la delusione era sempre più difficile da accettare fino a quando la sentenza è arrivata: sterilità. Non potevo avere figli. Mi hanno spiegato cento volte di cosa soffro, ma non riesco a spiegarlo o, forse, mi rifiuto di accettarlo ancora oggi. Il ginecologo, guardandomi attraverso i suoi occhialini rettangolari mi disse che l’unica opportunità che avevo per mettere al mondo un figlio sarebbe stata la fecondazione eterologa. In pratica parti per un altro Paese, prendi l’ovulo di un’altra donna, lo fai fecondare in provetta con il seme di tuo marito, lo inserisci nel tuo utero e il gioco è fatto. 

Mio marito non era d’accordo. Continuava a ripetermi che avremmo dovuto aspettare. Che nessuno ci correva dietro, ma io non ne volevo saperne di aspettare. Covavo ansia notte e giorno. Mi svegliavo madida di sudore, con il cuore in gola e i brividi di freddo. Avevo bisogno di diventare madre era una specie di ossessione per me, mi sentivo donna a metà senza quel figlio. E così lui si è deciso. Lo ha fatto per me. Siamo partiti per un altro paese, investendo in quell’intervento il poco che avevamo messo da parte in anni di sacrifici e rinunce. L’intervento? Un tunnel che paragonare all’inferno è poco. Non sei niente per quelle persone, il corpo è una macchina di riproduzione umana da stimolare e manipolare per vedere come reagisce. La sessualità, l’amore, l’affetto non hanno niente a che vedere con quel mondo sterile e anaffettivo. Fu difficilissimo per me. Per noi. Per mio marito, ma io non guardavo il suo dolore, ripiegata come ero su di me e sul mio bisogno di avere un figlio.

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L’intervento riuscì, dopo un po’ mi comunicarono la bella notizia. “Auguri signora, aspetta un bambino”, mi dissero. Aspettavo un bambino. Ero talmente felice da non riuscire a descriverlo. Mi guardavo allo specchio e mi sembrava di vedere un’immagine diversa di me. “Si vede proprio che sono incinta” mi ripetevo e parlavo con il bambino in ogni momento della giornata accarezzandomi la pancia, evitando di fare lavori pesanti. Insomma esistevamo solo io e quel cuoricino che batteva dentro di me. I mesi andavano, il mio corpo cambiava fino a quel giorno. Qualcosa non andava. Le analisi mostravano che c’erano dei problemi. Controlli su controlli per scoprire alla fine che quel figlio tanto desiderato era affetto da Sindrome di Down. “Non lo voglio!” furono queste le parole di mio marito. Una sentenza irremovibile, che mi scioccò. “Dopo tutto quello che abbiamo fatto per averlo… non è giusto” continuava a ripetere. “Se lo fai nascere ti lascio!” mi disse. Dalla sua parte aveva tutta la famiglia. “Lo avete fatto una volta… potete rifarlo” ci ripetevano “non vi preoccupate per i soldi, vi aiutiamo noi! Non mette al mondo un bambino malato”. Io li ascoltavo senza sentirli: come se un bambino malato fosse meno bambino di tanti altri! Avevo smesso di parlare con mio figlio e di accarezzarmi la pancia dal momento in cui avevo scoperto che era Down. Volevo un figlio, ma non lo volevo con un handicap eppure l’idea di sbarazzarmene mi spezzava dentro. 

Ritornarono gli attacchi di panico, l’ansia, quel senso di smarrimento che mi appesantiva il respiro. Eravamo sempre stati in due, ma ora ero sola di fronte a quella decisione e avevo paura. Credo di aver attraversato il periodo più difficile della mia vita, ne parlai con il ginecologo in cerca di qualcuno che mi aiutasse a prendere una decisione: “Lei è una donna giovane… se è andata bene una volta può andare bene anche la seconda volta” mi disse. E improvvisamente capii: un numero! Mio figlio per loro era solo un numero. Un calcolo di possibilità. Un tentativo che se non viene bene puoi ripetere. Lo prendi, lo crei in laboratorio, lo inserisci e se va… va altrimenti lo elimini e ne fai un altro. È questa la logica della fecondazione? La risposta è chiara: assolutamente sì. Loro possono tutto, basta pagare, e puoi provare all’infinito. Gli aborti ormai, non si contano più e non si contano più nemmeno le cliniche specializzate in questo tipo di trattamenti in giro per il mondo. È una questione di soldi. La vita umana è il prodotto di un’azienda con un fatturato tra i più alti al mondo. Paghi per avere un figlio comprando il seme per cui un’altra persona è stata pagata: ovuli o sperma non importa è tutto un gran mercato dove le persone si vendono, si comprano e, se escono difettose, si gettano via, come avrei fatto io con mio figlio. Non so dove, ma trovai il coraggio di dire a mio marito che no, non avrei abortito. Quel bambino era mio figlio comunque era, ed era una persona non un oggetto. Probabilmente sottoponendomi al trattamento di fecondazione gli avevo già sottratto rispetto e dignità, perché le persone non si creano in laboratorio e non sono la risposta al diritto degli adulti di diventare genitori. Mi sarei tenuta quel bambino così come era. 

Mio marito non accettò la mia decisione. Mi disse che sarei stata da sola, che lui un figlio con Sindrome di Down non lo voleva. Mi lasciò e ho dovuto vivermi la gravidanza da sola, eppure qualcosa è cambiato quando lo ha preso in braccio. Ha gli occhi a mandorla, i lineamenti orientali, ma è un bambino come tanti altri, che ha bisogno di amore, forse di una dose in più di amore. Oggi il nostro piccolo ha tre anni, io e mio marito siamo tornati insieme. È stata una riappacificazione lenta e difficile, c’era tanto da perdonare, ma ce l’abbiamo fatta. Nostro figlio è la persona più importante che abbiamo, lo amiamo. Un giorno mio marito mi ha domandato: “Potessi tornare indietro rifaresti la fecondazione?”. La risposta è stato un secco no. I figli con Sindrome di Down si fanno anche naturalmente, non è questo il punto. La ragione per cui non lo rifarei sta nel rispetto. Ogni volta che guardo mio figlio mi sento in colpa perché per ascoltare il mio egoistico bisogno di diventare madre l’ho trattato come merce con un suo mercato, con un prezzo da pagare. Gli ho tolto il riguardo che si deve ad un mistero chiamato “persona”, Down o no. Non giudico le coppie che pensano di realizzare così il proprio sogno, questa è solo la mia esperienza e non voglio salire in cattedra, l’unica cosa che posso dire è che io e mio marito pensiamo di avere un altro figlio ma questa volta non vogliamo fabbricarcelo… abbiamo fatto domanda di adozione e speriamo che ci chiamino da un momento all’altro.




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