
(Foto: © Anton Zabielskyi - Fotolia.com)
Sposare qualcuno è scendere nel suo Giordano
Se il paradigma è Dio che scende nel Giordano per assumere su di sé le sorti dell’umanità senza chiedere nulla in cambio, per gli sposi, per ciascun coniuge, ciò significa che questa scelta diventa appello a farsi carico delle difficoltà e debolezze dell’altro, prima ancora che ad aspettarsi che l’altro assuma le proprie. In altre parole, sposare qualcuno significa anche scendere nel suo Giordano per assumere sulle proprie spalle le sue difficoltà, persino le sue colpe che diventano anche proprie.
Dal Vangelo secondo Marco (1,7-11)
In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
IL COMMENTO
di Piero Del Bene e Assunta Scialdone
Il Vangelo di questa domenica si apre con la scena di Giovanni il Battista che amministra un battesimo con “acqua” corrente in un luogo imprecisato lungo il fiume Giordano, quindi non in locali appositi e in acque predisposte al rito.
Per inquadrare la scena del Battesimo amministrato dal Battista e comprendere l’affermazione “egli vi battezzerà in Spirito Santo”, c’è da fare un tuffo nella storia antica per cercare di comprendere il significato attribuito all’acqua dalle diverse religioni prima della rivelazione del Dio unico. L’acqua portava in sé diversi significati: vita, morte, rinascita e purificazione. In molti miti della creazione del mondo, l’acqua rappresenta la sorgente di ogni forma di vita e in quanto tale è associata alla fecondità femminile. Anche nella Genesi, si legge: “In principio Dio creò il cielo e la terra. (…) e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” quasi come ad indicare che Dio è vita. L’acqua è associata anche alla morte: si pensi alle inondazioni che distruggono o alle zone paludose che generano infertilità e il proliferare di malattie. Inoltre, l’attraversare il fiume esprime l’essere traghettati nell’aldilà abbandonando la vita immanente, quindi morire. Si pensi a Caronte il traghettatore di anime. Nel Medioevo se qualcuno si suicidava gettandosi in un pozzo questo, diventava “porta dell’Inferno” e, per timore che altri potessero essere attratti dal male e dalla morte, veniva riempito con dei sassi ed abbandonato. Anche nel libro dell’Apocalisse troviamo un pozzo che si apre sull’abisso: “Il quinto angelo suonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell’Abisso; egli aprì il pozzo dell’Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l’atmosfera” (Ap 9,1-2). Ritroviamo il pozzo e con esso l’acqua che contiene, anche come immagine della rinascita. Esso era considerato anche una “finestra” per accedere al mondo sotterraneo non visibile agli occhi, dunque spirituale. Nell’ambiente islamico, ad esempio, il pozzo costruito all’interno di un quadrato simboleggia il Paradiso. Infatti Šari‘ah, (da cui la parola sharia) che letteralmente significa via, strada battuta, è un percorso di vita verso il luogo dove si trova l’acqua e indica sia la ricerca dei mezzi di sostentamento in questa vita, sia l’accesso al regno di Dio nel mondo che verrà, perché l’acqua è considerata dono di Dio, sostanza utilizzata per creare l’uomo. Il pozzo e con esso l’acqua può essere considerato anche come una sorta di feritoia che genera vita sia a livello di fertilità dei terreni e sia come generazione di relazioni. Esso era il luogo dell’incontro e della comunicazione.
I giovani, nella cultura mediorientale, incontravano le ragazze in età da marito al pozzo del villaggio mentre attingevano acqua e con esse cercavano di comunicare con parole, ma soprattutto con gli sguardi. Si pensi ad Eliezer, servo di Abramo. Morta la moglie Sara, Abramo si prodiga a cercare una moglie per suo figlio Isacco affidando l’arduo compito al suo servo fidato Eliezer, che giungendo alla prossimità di un pozzo che si trova nella città di Arran, incontra una giovane donna, Rebecca, che si rivela essere figlia del fratello di Abramo. “Ecco che Rebecca, (…) uscì fuori con la sua brocca sulla spalla. La fanciulla era molto bella ed era vergine (…) scese alla fontana, per riempire la brocca (…) Il servo di Abramo, intanto, la contemplava in silenzio, per vedere se era in lei che il Signore gli aveva fatto raggiungere lo scopo del suo viaggio” (Gn 24,15-16.21).
L’acqua è vista anche come elemento di purificazione rituale, non solo fisica ma anche spirituale. Questi riti purificatori affondano le loro radici alle origini della presenza dell’uomo sulla terra. Da qui la diffusione dei bagni rituali presenti in moltissime culture antiche: l’immersione nel Gange prescritta dall’Induismo, i “catini lustrali” nella città cretese di Cnosso, i bagni di purificazione che precedevano i Misteri Eleusini che rappresentavano il riposo e il risveglio della campagna. Fino ad arrivare al battesimo giudeo-cristiano che al valore puramente purificatore ed espiatorio dell’acqua, aggiunge una rigenerazione morale dell’agire umano che lava l’uomo dal peccato e lo fa risorgere a vita nuova.
I riti di purificazione mediante bagni o abluzioni erano abbastanza usati nell’ebraismo dell’epoca di Gesù (cfr Mc 7, 1-4) come pratica quotidiana. Gli ebrei affermano: Ein maim el ha Torà, “non c’è acqua che non sia Torà”, non c’è comportamento o movimento dell’acqua che non racchiuda un insegnamento fondamentale. L’acqua, dunque, è considerata un segno dello Spirito di Dio sia nell’antico che nel nuovo testamento. Essa è in ogni caso una manifestazione di Dio, ma può essere creativa o distruttiva, sorgente della vita come della morte.
Nel Battesimo oltre ad una funzione purificatrice, riscontriamo anche una funzione di salvezza. La parola battesimo proviene da baptismos, un termine greco che significa “immergere”. Il “nostro” battesimo consiste nell’immersione completa in acqua del credente che riconosce con fede Gesù Cristo come Salvatore e Signore e ciò lo rende “generato da Dio” (1Gv 5,1). Il Battista richiede la conversione e la penitenza (Mc 1,4) che mirano più al piano morale, al cambiamento di vita che a quello rituale (Cf Lc 3,8). Il segno esterno di tale cambiamento esistenziale (bagno e confessione dei peccati) avveniva una sola volta nella vita. Inoltre, Giovanni afferma chiaramente che il suo battesimo è solo la preparazione a un evento purificatorio più radicale, direttamente connesso al fuoco del giudizio finale di Dio e, soprattutto, all’escatologia. In duemila anni, ci si è chiesto perché Gesù scende sulla riva del Giordano, confondendosi tra la moltitudine dei peccatori in attesa del suo turno, per essere battezzato, dato che Lui non aveva nessuna colpa da confessare e la Sua vita non aveva bisogno di essere trasformata.
Tale quaestio ha accompagnato i primi cristiani che hanno visto la Sua presenza come un’anticipazione della vicenda tragica della croce. Gesù dà inizio alla sua attività pubblica prendendo su di sé tutti i peccati dell’intera umanità. Il battesimo di Gesù rivela allora il suo significato pieno solo nella croce e tale significato sta nell’accettazione della propria morte per i peccati dell’umanità. Mentre, però, Gesù si immergeva e riusciva dalle acque del Giordano, si udì una voce dal cielo: «Questi è il Figlio mio prediletto» (Mc 3,17). La voce del Padre non è altro, in questo parallelismo, che l’anticipazione della risurrezione. Anche in questo caso, a dare un’ulteriore conferma di tale interpretazione dell’anticipazione della risurrezione, sono le iconografie che riproducono l’acqua del fiume Giordano come un sepolcro liquido, dalla forma di cavità oscura (come un pozzo che si apre sull’abisso), che a sua volta è l’immagine iconografica degli inferi, l’inferno. Gesù, ricevendo il battesimo, anticipa anche la sua discesa agli inferi ed è una discesa che porta conversione, che stravolge gli inferi aprendo le porte dell’abisso al cielo. È una lotta tra Dio e il male che tiene prigioniero l’uomo il quale è liberato definitivamente dalla vittoria di Gesù sulla morte. Il Vangelo di Giovanni, invece, riferisce parole diverse pronunciate dal Battista nel momento in cui Gesù si reca al Giordano: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato dal mondo!» (Gv 1, 29). L’agnello ci fa pensare all’agnello sacrificato il giorno della Pasqua e il fatto che Gesù fu ucciso proprio durante la festa di pasqua fece sì che Egli dovette sembrare proprio l’agnello pasquale. Anche l’espressione agnello ci rimanda alla teologia della croce del battesimo di Gesù cioè a quell’anticipo di morte e risurrezione. Un’altra osservazione riguarda la presenza, in tutti e quattro i Vangeli, del cielo squarciato e della voce di Dio che ne uscì con la discesa dello Spirito Santo in forma di colomba preannunciando la Trinità.
A questo punto è più che spontaneo fare un parallelismo tra ciò che è accaduto nel Giordano e ciò che accade sulla croce al momento della morte di Cristo. Gesù nel fiume Giordano è detto l’Agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo e discende agli inferi per vincere la morte, allo stesso modo Gesù è sulla croce e muore nei giorni della celebrazione della festa di pasqua proprio come un agnello che porta a compimento il progetto di Dio Padre, cancellando la colpa commessa nel paradiso terrestre. Così come al Giordano il cielo si squarcia e da esso esce la voce di Dio, essendo il cielo la sede del Divino, sulla scena della croce, nell’ora in cui Gesù muore, il velo del Tempio, sede del divino, si squarciò nel mezzo a simboleggiare che dal quel momento in poi l’uomo e Dio avrebbero avuto un contatto diretto grazie ai meriti di Cristo e quindi non ci sarebbe stato più bisogno dei profeti per mediare con Dio. Infine, al Giordano vi è la presenza dello Spirito Santo, lo stesso Spirito presente nel principio genesiaco. Anche sul Golgota, sulla scena della croce, è presente lo Spirito che è, prima, rimesso nelle mani del Padre e successivamente donato a piene mani a tutta l’umanità dal costato squarciato, che diventa il pozzo dal quale sgorga l’acqua viva, di Cristo e, infine, ridonato a Gesù nel supremo momento della risurrezione (richiamando così il soffio di Dio donato ad Adamo nel principio): con questo soffio donato a Cristo viene richiamata la nuova creazione. Tutte queste similitudini ci consentono di affermare che effettivamente il battesimo di Gesù può essere un anticipo della sua morte e risurrezione e che esso si pone come evento anticipatore del compimento futuro.
Un’attenzione particolare riserviamo alle parole di Dio Padre che dice “Questi è il Figlio mio”, con le quali viene annunciata la missione di Gesù che consiste non in un “fare” ma essenzialmente nell’essere. Le parole del Padre sono di un’importanza straordinaria perché ci fanno comprendere che il cristiano, sulle orme del Maestro, prima di compiere le opere, deve essere, altrimenti le sue opere sono vane. Le opere buone possono essere compiute da chiunque, da un ateo, un uomo appartenente ad un altro credo, da coloro che hanno una certa sensibilità d’animo, ma essere cristiani non è da tutti. Essere cristiani significa identificarsi totalmente con Lui, lo Sposo, e quindi basare tutte le scelte, tutta l’impostazione della vita sull’essere come Lui, per poter diventare una sola carne con lo Sposo. Identificarsi totalmente con Lui a tal punto da poter riprendere le stesse parole di Gesù apportando una modifica: “Chi vede me vede il Cristo”. La bellezza delle parole del Padre è smisurata perché ci rende chiara la missione di Cristo e la missione di ogni battezzato. D’altronde le opere compiute dal Cristo sono state lo specchio del suo essere, ecco perché è stato coerente fino in fondo alla sua missione e persino nelle parole pronunciate da Gesù a Giovanni il Battista: «Poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia» (Mt 3,15) si intravede un’anticipazione a quell’essere coerente alla sua missione riconfermata dalle parole pronunciate nel Getsemani: «Padre (…) non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39).
Il Battesimo che i discepoli amministrano dal momento della risurrezione è l’ingresso nel battesimo di Gesù e, quindi, esso ci appare come dono di partecipazione alla lotta di trasformazione del mondo e della vita dell’uomo, intrapresa da Gesù nell’atto della sua discesa e risalita dalle acque. Dunque il battesimo non è altro che identificarci con Lui e Lui con noi nell’una caro. Siamo, in altre parole, di fronte ad un mistero nuziale che, come tale, ha molto da dire agli sposi. Non è affatto un caso che il rito aggiornato del matrimonio riporti la memoria del battesimo come punto di partenza. Lo fa con parole chiare e misurate: “Padre, nel Battesimo del tuo Figlio Gesù al fiume Giordano hai rivelato al mondo l’amore sponsale per il tuo popolo”.
Innanzitutto va considerato il prendere su di sé le sorti di qualcun altro. Se il paradigma è Dio che scende nel Giordano per assumere su di sé le sorti dell’umanità senza chiedere nulla in cambio, per gli sposi, per ciascun coniuge, ciò significa che questa scelta diventa appello a farsi carico delle difficoltà e debolezze dell’altro, prima ancora che ad aspettarsi che l’altro assuma le proprie. In altre parole, sposare qualcuno significa anche scendere nel suo Giordano per assumere sulle proprie spalle le sue difficoltà, persino le sue colpe che diventano anche proprie. Del resto, allargando il discorso, gli sposi non sono forse chiamati a prendere su di sé anche le sorti dei figli? E a farlo comunque essi siano? Quante sono le coppie in cui si vive tale vertigine? Poche, evidentemente, perché essa non è alla portata immediata dell’uomo. Ma anche in questo il battesimo di Gesù ha da insegnarci qualcosa. Se due poveri esseri umani possono impegnarsi ad un passo simile, ciò è dovuto proprio a quell’immergersi di Gesù nelle acque del nostro Giordano. Dal momento che a Lui si affidano, due che si sposano possono contare sull’aiuto di quel Dio che non ha esitato a sposarli in tutto e per tutto.
Assunta Scialdone e Piero del Bene sposi da 18 anni e genitori di due figlie. Matematico lui, teologa lei. Entrambi insegnanti, lei anche docente universitaria. Dopo essersi formati presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia, si occupano, da tanti anni, della pastorale familiare nella loro Arcidiocesi. Catechisti, perché non si può non esserlo, se si vuole il bene di coloro che s’incontrano. Sono membri del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus.
Nessun commento per “Sposare qualcuno è scendere nel suo Giordano”