Burkina Faso

“Vi racconto come sono arrivata in Africa, nella terra dove ci si inginocchia solo davanti a Dio”

Caterina Paladino

di Ida Giangrande

Lei è suor Caterina Paladino, vergine consacrata della Fraternità di Emmaus. Un po’ di tempo fa partì per il Burkina Faso. La sua sola presenza in quella terra è servita a costruire l’Oasi Santa Teresa del Gesù Bambino e tanto altro. Conosciamola meglio…

Come è nata l’idea di partire per l’Africa? Da quanto tempo sei in Burkina Faso?

È nata da un momento di preghiera intensa durante alcuni giorni passati con un gruppo di amici, presso l’Oasi Regina della Famiglia a Montoro in provincia di Avellino. Era un piccolo ritiro guidato da don Silvio Longobardi, fondatore e custode della Fraternità di Emmaus, il Movimento a cui appartengo. A conclusione di questo tempo forte, don Silvio mi propose di andare in Africa per vivere un’esperienza di condivisione con i fratelli burkinabè. Ho accettato e sono partita. La prima volta che sono venuta qui in Burkina Faso è stata nel 2005, a settembre, e vi sono rimasta per 45 giorni, ospite delle suore camilliane. Lo scopo di questo periodo è stato innanzitutto sperimentare la mia capacità di adattamento a questo Paese, al suo clima, alle sue consuetudini per poi comprendere quale servizio rendere. In seguito sono tornata in Africa una o due volta all’anno, sempre per periodi medio lunghi, per iniziare le varie attività. Nel 2009 poi mi ci sono trasferita definitivamente.

Cosa hai trovato quando sei arrivata lì?

Come accade a tutti quelli che vengono in Africa anche io sono rimasta scioccata dalla povertà, dai bambini con le pance gonfie e pieni di mosche, dalle mamme scheletriche e gli uomini apatici, forse per il caldo, forse per la fame, forse per la cultura. Sono immagini forti a cui non siamo abituati che ti segnano e ti scuotono profondamente. Poi, però, il fatto di restare per un tempo prolungato, mi ha permesso di scoprire che, al di là della povertà, il popolo burkinabè è veramente ricco di valori: l’accoglienza in primis, poi la famiglia, la vita, la gioia di vivere. Anche a questo non siamo più abituati direi. Il fatto di essere rimasta tanto tempo mi ha permesso di vedere un popolo pieno di fede in Dio, che confida in Lui, che accetta tutto dalle sue mani, perché “Tutto è grazia”. E allora gli occhi del mio cuore hanno scoperto non solo la dignità di questo popolo, ma anche il desiderio di riscatto comunitario, il sogno di creare una nazione libera, l’aspirazione di realizzarsi personalmente e comunitariamente come persone adulte e capaci di portare avanti la propria vita. Per questo la scommessa di puntare tutto sulla formazione dei giovani, per questo l’aiuto dato alle famiglie piuttosto che al singolo bambino.

Parlaci dell’Oasi… a quante persone offre sostegno, riparo e accoglienza?

La nostra Oasi, dedicata a Sainte Thérèse de l’Enfant-Jésus de la Sainte-Face, è particolare perché formata da diverse strutture: l’Oasi in quanto casa della comunità residente; la Maison Yougbare che accoglie 20 studentesse che ospitiamo per permettere loro di proseguire negli studi liceali; la sala Madre Teresa dove offriamo il pasto a una cinquantina di studenti in difficoltà economica; la Maison de Rose dove 70 bambini sono intrattenuti e ricevono i primi rudimenti scolastici per poi proseguire con le scuole primarie. Sono bambini che altrimenti resterebbero sulla strada, sia perché la loro mamma spesso è fuori alla ricerca di legna, acqua, lavoro, sia perché la cultura qui è diversa. La sensibilità europea è puerocentrica, cioè il bambino al centro di tutto, mentre in Burkina il bambino è sacro, immagine di Dio, ma non al centro dell’universo. Infine abbiamo il centro Jean Paul II che permette agli studenti dei vicini licei, di trovare un luogo con lavagne e corrente elettrica dove poter studiare anche dopo il tramonto del sole. 

A parte la situazione socio-economica qual è il modo di sentire la famiglia in Africa?

La famiglia è la realtà più importante in Burkina Faso, entra in tutte le attività e in tutte le decisioni. Innanzitutto per famiglia non si intende madre-padre-figli, ma comprende nonni, zii, parenti vari, anche lontani (come diremmo noi). È la famiglia che si impegna quando un giovane o una giovane deve sposarsi, e non solo per le spese del matrimonio, quanto per tutto il rituale precedente. Non è il giovane a chiedere la mano, ma gli anziani della famiglia che si spostano per chiedere agli anziani dell’altra famiglia il permesso di sposare la giovane. E sono sempre gli anziani, e non solo i genitori, a parlare con la fanciulla. Questo solo come esempio. Se i genitori muoiono, i figli sono presi in custodia non dai nonni (in quanto persone anziane), ma dai fratelli del padre e i figli dei fratelli non sono nipoti, ma figli a loro volta. Il fratello del nonno non è zio, ma piccolo papà e la sorella maggiore della mamma non è zia, ma grande mamma. Questo è il sentire la famiglia in Burkina. Certo il concetto è diverso, ma anche la modalità di vivere la famiglia è diversa: in genere domina l’uomo, la donna è quella che lavora di più in tutti i campi, i figli sono affidati alla madre e spesso il padre se ne disinteressa.

Qual è il modo di sentire il Matrimonio?

Tenuto conto che ci sono diverse religioni, in generale il Matrimonio è un passo fatto con tutte le convenzioni necessarie. Richiesta, presentazione delle famiglie, fidanzamento ufficiale, matrimonio al comune, matrimonio presso il luogo di culto della propria religione: chiesa se cattolico o protestante, moschea per il musulmano, luogo di sacrifici per la religione tradizionalista. Fino ad alcuni anni fa, il Matrimonio era un contratto fatto fra anziani, con il passare del tempo, il matrimonio forzato è diminuito, anche se non ancora scomparso. E, piano piano, si inizia a sentire, soprattutto fra gli sposi cattolici, l’importanza di comprendere il Matrimonio come una chiamata d’amore.

Qual è la condizione dell’uomo e quella della donna?

L’uomo domina, la donna è dominata. Almeno questo all’esterno. Privatamente, come in tutto il mondo, la donna può essere capace di dominare l’uomo nelle decisioni più importanti. Certamente la condizione della donna in Burkina Faso è infelice. A lei toccano tutti i lavori di casa che non vuol dire lavare a terra o stirare i panni, ma cercare la legna, attingere l’acqua al pozzo che in genere è distante alcuni chilometri, e cercare una fonte di guadagno per permettere ai figli di andare a scuola. All’uomo spettano i lavori più “pesanti”: zappare la terra nel tempo delle piogge, seminare e raccogliere, costruire o riparare la casa se questa è fatta con fango e paglia. Naturalmente ci sono anche uomini che svolgono altri tipi di lavori: meccanici, muratori, insegnanti… e, come in molte parti del mondo, questo dà diritto poi, tornando a casa, a sdraiarsi sulla sedia di bambù e riposare, facendosi servire dalla moglie o dalle figlie.

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Uno dei servizi che stai offrendo in quella terra lontana è evangelizzare la famiglia. Come ti accolgono gli sposi?

Il mio servizio agli sposi è iniziato in modo casuale o meglio provvidenziale: durante l’annuncio fatto in parrocchia, presentando la Fraternità, i giovani hanno letto un passaggio breve, ma che ha colpito uno sposo presente nell’assemblea, uno sposo non della parrocchia: “La Fraternità è composta da sposi, consacrati, sacerdoti e giovani”. Dopo l’incontro, molti giovani si sono avvicinati per chiedere chiarimenti e informazioni, fra questi c’era anche lo sposo, che mi ha domandato in modo diretto: “So che siete anche a Ouagadougou. La capitale del Burkina, Non si potrebbe fare lo stesso con gli sposi?”. E così mi sono ritrovata ad andare ogni 15 giorni in capitale, per incontrare i giovani prima e gli sposi dopo. Nel complesso, l’accoglienza è buona, le coppie, quelle che sono unite in matrimonio per amore e non per convenzione sociale o in maniera forzata, iniziano a sentire il bisogno di scoprire il loro Sacramento come via di santità. È una novità, ma da tempo ormai si sente dire che il matrimonio è una vocazione santa, come quella dei consacrati. Solo che i sacerdoti non sono preparati a guidare questi sposi in un cammino così impegnativo. Basta pensare che qui il corso di preparazione al matrimonio può ridursi a tre incontri, a volte fatti anche separatamente, cioè la sposa lo fa in lingua moore e lo sposo in francese, oppure uno in un villaggio, l’altro in parrocchia. I giovani non sono messi in condizione di scoprire insieme la bellezza del matrimonio. Trovare un cammino di fede che ti aiuta a scoprire la bellezza del matrimonio è una cosa rarissima. Il vero problema per me è la lingua. Riesco a fare le catechesi in francese, ma non è detto che entrambi gli sposi conoscono il francese e non è raro che chiedo a chi può farlo di tradurre in lingua moore.

Si parla sempre di Paesi del Terzo Mondo come di realtà al limite e spesso sono molti quelli che vengono a fare turismo da quelle parti. Capanne e villaggi per noi sono questioni di altri tempi, mi sembra che talvolta la povertà dei bambini con le pance piene d’aria ad esempio, sia diventata una strumentalizzazione inumana che non dona nulla ma, anzi, toglie la dignità della persona. Mi sbaglio? 

Da tempo siamo impegnati ad accompagnare gruppi di italiani nei loro viaggi “missionari”. Anche il termine “missionario” e non “turistico” è voluto, proprio per dire agli amici che le persone che si trovano in questa terra non sono animali allo zoo. E in realtà molto spesso riusciamo nel nostro intento in maniera molto semplice: facendo entrare il gruppo nel vivo di questo Popolo. Ad esempio la partecipazione all’Eucarestia domenicale, potremmo tranquillamente organizzarla all’Oasi con un sacerdote che parla italiano (e ce ne sono tanti qui a Koupela). Ma noi preferiamo andare in parrocchia, per far sentire loro la gioia del Popolo credente di questa terra, per far vedere la dignità delle persone che, con le ciabatte ai piedi, loda il Dio che è Padre di tutti, si inginocchia solo dinanzi al Sacramento, e non davanti a noi bianchi. Assistendo all’incontro tra le due culture, spesso penso che sia più il popolo burkinabè ad evangelizzare gli italiani che viceversa. L’italiano dona un pozzo (che è la vita), un mulino, degli aiuti, cose importantissime, ma il burkinabè dona il senso della vita, la capacità di condividere, la gioia di donarsi.

Per migliorare le sorti dell’Africa non è sufficiente realizzare un’opera o fare donazioni, bisogna invece mettere gli africani in condizioni di autosufficienza. Da dove partire? 

Io credo che dovremmo iniziare a lasciare libero il popolo burkinabè e quello africano in generale, di prendere in mano le sorti della loro nazione. Ma io non sono un politico, sono solo una suora, di conseguenza parto dal buon Dio. Spesso inviamo aiuti solo per pulire la nostra coscienza, ma restiamo saldamente ancorati al nostro benessere. Dovremmo invece ricordarci più di frequente che facciamo parte di una sola famiglia ed abbiamo un solo Padre. Il problema vero è che noi abbiamo perso il senso della famiglia e se mio fratello è in difficoltà, non è sicuro che riceva aiuto. Qui in Burkina, se muore il fratello, la moglie e i figli vengono aiutati, a volte anche entrano nella casa del fratello diretto, quello più grande. E i nipoti non si distinguono più dai figli.

Ricordi qualche esperienza particolare che ti ha colpita nel corso di questi anni? 

Purtroppo le esperienze sono tante e tutte importanti per me. La prima, però, è quella che faccio ogni giorno quando guardo il Centro Jean Paul II con tutte le sue diramazioni: Dio ha compiuto tutto questo attraverso e nonostante me. Nonostante i miei tanti limiti, nonostante i miei diversi rifiuti, Lui ha realizzato tutto questo. Mi dispiace per quanti non possono vedere e non sanno cosa ci sia qui. È un’opera stupenda che Dio sta realizzando, è il giardino nel deserto. Ma c’è anche la morte della piccola musulmana che mi ha toccata profondamente. Suo fratello Hamado, era un nostro sostenuto, un giovane aiutato da noi. Per me era diventato come un figlio, un figlio spesso malato a causa di una malattia tropicale dal nome impronunciabile. Attraverso lui ho saputo che la sua famiglia, dopo aver speso tutto quello che aveva, miglio e farina compresa, per pagare le cure della sorella più piccola malata di diabete infantile, ora aspettava la sua morte. Ho subito deciso di aiutarla e dall’Italia è partita una gara di solidarietà. Unica condizione: la bambina diventava mia figlia e la famiglia non avrebbe più avuto su di lei alcun interesse, questo per evitare che poi venissero a chiedere soldi. Subito abbiamo portato la bambina all’ospedale pediatrico della Capitale, da dove era uscita e sembrava proprio che ce l’avrebbe fatta quando, una semplice bronchite l’ha portata alla morte. Se solo il fratello me ne avesse parlato prima … 

Poi c’è l’esperienza fatta con G.C., un giovane venuto in uno dei tanti viaggi missionari non per controllare se avessimo veramente fatto il pozzo o altre attività, ma per conoscere questo Paese. Ha voluto incontrare i giovani, ha voluto incontrare chi lavora con noi. È rimasto solo 4 giorni, il tempo necessario perché tanti sogni prendessero forma. Sogni che, piano piano, si stanno realizzando. 

Infine non posso dimenticare mia madre. È stata qui con me fino a quando il Signore non l’ha chiamata. Non voglio certamente idealizzarla. La sua presenza era al tempo stesso una grazia e una sfida, una grazia perché mi sentivo accompagnata, sostenuta, aiutata da lei e dal suo amore per me. Una sfida perché non è facile vivere con una nonnina di 77 anni in terra straniera. Alla fine tutto quello che mi rimane è il canto di lode a Dio per tutto per i momenti belli e per quelli meno belli.




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1 risposta su ““Vi racconto come sono arrivata in Africa, nella terra dove ci si inginocchia solo davanti a Dio””

Suor Caterina sei una persona eccezionale! Io posso affermarlo dopo averti conosciuta personalmente. Ti siamo vicini e spero che a gennaio prossimo ci riabbracceremo. Ti vogliamo bene!

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