Qual è il momento giusto per fare l’amore?

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C’è un momento giusto per compiere l’atto sessuale? Ho ascoltato risposte di diverso tipo, ma solo una di queste ha donato finalmente pace al mio cuore. Mi è stata offerta all’età di 20 anni, durante un ritiro con i salesiani a Loreto (era aprile del 2012) da una giovane coppia di sposi con tre figli: “Quando avrai prima accolto per tutta la vita quella persona”.

Mi scuseranno i lettori se, nel proseguire il nostro discorso, torno di nuovo (per la terza o quarta volta: ho perso il conto) all’incontro di cui vi ho parlato all’inizio di questa serie di appuntamenti, in cui ho conosciuto dei ragazzi che dovevano ricevere la Cresima e ho potuto constatare che tutti avevano qualcosa da dire sul sesso, ma nessuno sapeva dirmi “cosa fosse” l’atto sessuale. Oggi, dopo aver provato a rispondere nei 5 articoli precedenti a cosa sia questo gesto (il vincolo che ci fa diventare una sola carne con qualcuno e il veicolo che ci fa mettere al mondo nuove vite) ci ritorno per riflettere con voi sul “quando” abbia senso viverlo. Ciò che, infatti, premeva di più ai ragazzi quel giorno era definire il “momento migliore” in cui vivere tale gesto (“dopo un anno”, “quando te lo senti”, “quando vuoi”, “quando c’è fiducia” ecc.). 

Degli amici che tengono un corso sulla sessualità sostengono che in tantissimi adolescenti brucia dentro proprio questa domanda: “Quando lo devo vivere? Qual è il momento giusto?”. Io stessa, per anni, specialmente ai tempi delle superiori, mi sono posta infinite volte questa domanda. 

Messa per un po’ da parte la risposta dei miei genitori, che nella loro radicalità mi proponevano di “preservare la verginità fino il matrimonio” (a quell’età metti in discussione tutto ciò che ti hanno insegnato i tuoi), ho ascoltato risposte di diverso tipo, ma solo una di queste ha donato finalmente pace al mio cuore. Mi è stata offerta all’età di 20 anni, durante un ritiro con i salesiani a Loreto (era aprile 2012) da una giovane coppia di sposi con 3 figli: “Quando avrai prima accolto per tutta la via quella persona”. “Quando ti unisci nell’atto sessuale – sosteneva questa coppia – stai dicendo: io sono tuo, ti appartengo. Ma se non ci apparteniamo davvero nella vita, col corpo stiamo dicendo una bugia”. Come racconto nel mio libro Casti alla meta. 50 sfumature dell’amore vero (Mimep Docete, 12 euro, 2020), quelle parole mi hanno svegliata di colpo e mi hanno cambiata per sempre. 

Leggi anche: Per la Chiesa l’atto sessuale è finalizzato solo alla procreazione?

Si pensa spesso che il sesso sia un po’ una conquista personale (perdere la verginità sembra il passaggio che ti rende finalmente “uomo” o “donna”) e quando si vive una relazione lo si considera quasi “alla base”: si crede che sia un elemento da introdurre quanto prima per “verificare l’affinità” e rendere la coppia più unita, più coesa, più forte. Al contrario, quando si parla di attesa, di castità si pensa a una tortura, a una limitazione che logora il rapporto. Non ci si ricorda che attendere qualcosa dona valore a ciò che si attende. Non si ricorda che la lontananza divide chi non è unito, fortifica, invece, chi si vuole bene davvero.

Ai miei ragazzi, allora, ho raccontato della mia “conversione alla castità”, ho spiegato che se non do un abbraccio a chiunque, ma solo a qualcuno cui voglio bene, a maggior ragione non darò “tutta me stessa” a chiunque, ma solo alla persona che, oltre ad accogliere il mio corpo, vuol unire per sempre la sua vita alla mia. E quando succede questo?

Grazie a quella coppia presente a Loreto e a molte altre persone che sono capitate nel mio cammino, una risposta l’ho trovata. Ho capito che nella vita di un cristiano il momento in cui ci si dona l’uno all’altra e quindi il momento più propizio per unirsi in una sola carne coincide con il “Sì” libero, maturo, definitivo, irreversibile detto all’altare. Sono sposata da quasi cinque anni e per quanto possa essere stato faticoso, rifarei cento volte la scelta di accogliere mio marito solo dopo avergli promesso, con la grazia di Cristo, davanti a Dio e alla comunità riunita intorno a noi, che su di me avrebbe potuto contare per il resto dei suoi giorni.

Concludo, per oggi, dicendo che la castità prematrimoniale è una scelta coraggiosa, difficile, che comporta sacrificio, una decisione che – lo capisco benissimo – non può essere imposta: la si vive gioiosamente solo se assunta liberamente e consapevolmente. Se ve la presento è perché mi è stata presentata a mia volta e oggi ringrazio chi lo ha fatto. Vorrei, inoltre, spiegarvi i 4 motivi cardine che hanno portato me e mio marito a perseverare nel vivere un fidanzamento di quasi quattro anni senza il vincolo carnale (potete immagine che sia stata una scelta impegnativa e nessuno la farebbe se non esistesse una motivazione che supera le fatiche della privazione). Volete sapere quali sono? Seguitemi anche il prossimo venerdì!




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Cecilia Galatolo

Cecilia Galatolo, nata ad Ancona il 17 aprile 1992, è sposata e madre di due bambini. Collabora con l'editore Mimep Docete. È autrice di vari libri, tra cui "Sei nato originale non vivere da fotocopia" (dedicato al Beato Carlo Acutis). In particolare, si occupa di raccontare attraverso dei romanzi le storie dei santi. L'ultimo è "Amando scoprirai la tua strada", in cui emerge la storia della futura beata Sandra Sabattini. Ricercatrice per il gruppo di ricerca internazionale Family and Media, collabora anche con il settimanale della Diocesi di Jesi, col portale Korazym e Radio Giovani Arcobaleno. Attualmente cura per Punto Famiglia una rubrica sulla sessualità innestata nella vocazione cristiana del matrimonio.

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