Sacerdoti

I preti non fanno sesso, ma devono fare l’amore…

sacerdote

di Pierluigi e Mariagiovanna Beretta

I sacerdoti, nell’imitare il Signore Gesù lungo la via del celibato per il Regno, fanno l’amore su un talamo speciale che è quello della Croce, perché si donano totalmente in corpo e anima, giorno e notte, in salute e malattia, senza chiedere nulla in cambio e senza cercare il proprio piacere, per vivere una fecondità che restituisce il centuplo già a partire da quaggiù.

Don Riccardo Ceccobelli, 42 anni, ha chiesto già a Gualtiero Sigismondi, vescovo della diocesi di Orvieto-Todi, la grazia della dispensa dall’obbligo del celibato e la dimissione allo stato laicale. Dice che non tornerà più indietro. L’ha fatto per una donna”. (Corriere della Sera, 14 aprile 2021)

È arrivata all’attenzione dei media nazionali la decisione di un sacerdote del Centro Italia di chiedere la dispensa dall’obbligo del celibato, dopo aver iniziato una relazione con una donna. La decisione è stata ampiamente pubblicizzata dal protagonista stesso, con un’intervista esclusiva rilasciata al Corriere della Sera. Lo storico quotidiano milanese aveva già messo all’ordine del giorno la discussione sul celibato sacerdotale alcuni mesi fa, con uno speciale che non lasciava dubbi fin dal titolo: “Chiesa, celibato in crisi: «Io, prete più giovane d’Italia, lascio per amore»” (inserto Sette del Corriere, 31 luglio 2020). Sembra quindi che l’argomento sia di attualità: perché i media laici hanno tanto interesse in una questione che riguarda quasi esclusivamente la Chiesa Cattolica Latina? Che senso ha il celibato?

È comprensibile al mondo il celibato?

Agli occhi dell’uomo della strada, o del giornalista di un giornale laico e liberale, il celibato sembrerebbe un’obsoleta forma di castrazione psicologica. Questo atteggiamento si radica in una visione naturalistica della sessualità, oggi comunemente accettata, per cui il cuore della sessualità è l’istinto sessuale, il cui fine è la ricerca del piacere. Soddisfatto l’istinto e raggiunto il piacere, l’uomo e la donna troveranno il loro benessere, fisico e psicofisico (vedi Giovanni Paolo II, Catechesi del 31 marzo 1982). La rinuncia all’esercizio della sessualità viene pertanto ritenuta da molti un rischio che potrebbe mettere a repentaglio la salute psichica del soggetto. Ma allora, perché la Chiesa Cattolica lo richiede ai candidati sacerdoti?

Il celibato è una questione di “bilanciamento famiglia-lavoro”? 

Sentiamo in proposito le parole di alcuni sacerdoti, intervistati dalla giornalista di Sette lo scorso anno: “Oggi il prete deve correre… Per questo il parroco non può essere al pari di un impiegato, che dopo otto ore di lavoro può staccare e tornare a casa dalla famiglia” (don Lorenzo, diocesi di Todi-Orvieto). “Credo che prima o poi la Chiesa aprirà sul celibato. Certo io non potrei avere una compagna: dedico anima e corpo a cambiare le ingiustizie, incidere sulla mia gente e riempire di senso le loro vite” (don Armando, diocesi di Pisa). “Vivere una vita a due dovrebbe essere una scelta libera e soprattutto saggia: il celibato sacerdotale non può essere legato a questioni meramente pratiche, come il tempo da dedicare interamente alla vita parrocchiale”. “Fare il prete è sempre stata la mia vocazione. Se potessi sposarmi continuerei. E lo farei accanto a lei, che ormai ha preso per sempre posto dentro di me. Ci troviamo in tutto, dalla musica alla fede” Emmanuel, ex-parroco nella Diocesi di Milano

I passi delle interviste sembrano sottintendere che il celibato è dovuto principalmente ad una questione pratica. I preti hanno sempre più incombenze, e quindi non ci sarebbero spazio e tempo per mandare avanti la famiglia. Ma tale motivazione, da sola, non regge, ed infatti Emmanuel la mette chiaramente in discussione, avendo già deciso di rinnegarla: se il celibato è solo una questione di “bilanciamento lavoro-famiglia”, la sua imposizione rappresenta una mancanza di fiducia nelle capacità organizzative dei candidati sacerdoti, nonché una frustrazione delle necessità affettive di un uomo in carne ed ossa.

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Purtroppo però, dall’articolo emerge una visione del Sacerdozio e del Matrimonio estremamente riduttiva: diventano solo istituzioni funzionali al raggiungimento di un benessere dell’io, qui ed ora (al benessere religioso e psicofisico, giustizia sociale). Non c’è un noi, non c’è un dopo, non c’è un oltre. Ma questa visione è soffocante e disperante: la vita prima o poi finisce, e con essa il piacere, il benessere, e la gratificazione. Finisce tutto qui? È quello per cui ci siamo sposati, e per cui diversi amici hanno scelto la strada del sacerdozio?

La Teologia del Corpo: una prospettiva totalmente diversa

Per spalancare le finestre e respirare a pieni polmoni, dobbiamo necessariamente ritornare a Giovanni Paolo II ed alla sua Teologia del corpo. Il Papa polacco ci aveva già guidato nella lettura racconto della Genesi (“maschio e femmina lo creò, a immagine di Dio lo creò”) fino a farci comprendere come l’essere umano è immagine di Dio non solo come singolo, ma soprattutto in quanto “coppia”, maschio e femmina. Maschio e femmina, nella loro unione stabile, fedele e feconda, sono la più prossima immagine su questa Terra di ciò che è Dio: comunione, amore che genera vita. «Non c’è un’altra realtà umana più corrispondente, più umanamente corrispondente a quel mistero divino» (Giovanni Paolo II, Omelia per alcune famiglie missionarie, 30 dicembre 1988).

Abbiamo visto nei mesi scorsi come l’essere umano ritrova pienamente sé stesso solo se vive per qualcuno, se si dona totalmente a qualcuno. La chiamata al Matrimonio è proprio la chiamata a dare tutto di sé all’altro, per realizzare un’unità tra i due: questa chiamata alla donazione è quello che il Papa polacco chiama il significato sponsale del corpo. La differenza sessuale dei corpi maschile e femminile, e la loro reciproca attrazione, è proprio il segno inequivocabile di questa chiamata alla donazione. Ma l’unione degli sposi nella carne non è destinata a rimanere per sempre: prima o poi, questa vita come la conosciamo finirà, e così anche la capacità di unione dei corpi. Il sesso non è per sempre! Il celibato del prete, scelto liberamente, sta anche ad indicare agli uomini e alle donne di questa terra proprio questo: il sesso non è tutto! Solo la comunione d’amore come dono totale tra persone, a cui il sesso rimanda, sarà per sempre!

Potremmo dire, con una battuta, che i preti non fanno sesso, ma devono fare l’amore! Nel senso che sono chiamati a donare totalmente sé stessi per amore. Ma in che modo allora, dal momento che sono celibi?

Un cuore indiviso

“Il Sacerdote, attraverso il suo celibato, diventa l’«uomo per gli altri», in modo diverso da come lo diventa uno che, legandosi in unità coniugale con la donna, diventa anch’egli, come sposo e padre, «uomo per gli altri» soprattutto nel raggio della propria famiglia: per la sua sposa, e insieme con essa per i figli, ai quali dà la vita. Il Sacerdote, rinunciando a questa paternità ch’è propria degli sposi, cerca un’altra paternità e quasi addirittura un’altra maternità, ricordando le parole dell’Apostolo circa i figli, che egli genera nel dolore (cfr. 1Cor 4,15; Gal 4,19). Sono essi figli del suo spirito, uomini affidati dal buon Pastore alla sua sollecitudine. Questi uomini sono molti, più numerosi di quanti ne possa abbracciare una semplice famiglia umana. La vocazione pastorale dei Sacerdoti è grande e il Concilio insegna che è universale: essa è diretta verso tutta la Chiesa (…). Normalmente, essa è legata al servizio di una determinata comunità del Popolo di Dio, in cui ognuno si aspetta attenzione, premura, amore. Il cuore del Sacerdote, per essere disponibile a tale servizio, a tale sollecitudine e amore, deve essere libero. Il celibato è segno di una libertà, che è per il servizio” (Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti, Giovedì Santo 1979). Non si tratta quindi di una libertà funzionale, né di questione di tempo da dedicare ma è una questione di libertà del cuore. La Chiesa, corpo mistico e inquieto, è una sposa fedele ed esigente.

Nell’affermare questo, Giovanni Paolo II ha una considerazione altissima del Matrimonio e della vocazione alla paternità responsabile. Al contrario, nei progetti di vita a due descritti nelle interviste del Corriere, non è presente la figura dei figli nella carne, quei figli che la chiesa ci chiede di accogliere generosamente e responsabilmente e che costituiscono fonte di grande gioia ma anche di grande fatica. Gli intervistati, invece, paiono vagheggiare una vita a due vissuta impegnandosi nel sociale, magari con i giovani, senza la concretezza di quelle levate notturne, pannolini puzzolenti, capricci ostinati e gite con gli amici saltate all’ultimo momento per uno (o più) bambini alle prese con l’influenza stagionale che caratterizzano l’esperienza di molti sposi nei primi anni e che ti inchiodano inesorabilmente ad una realtà dalla quale non puoi scappare, nemmeno con la dispensa papale.

Il Matrimonio non è stare con una “compagna” ma abbracciare quotidianamente la Croce per il coniuge e per i figli, giorno e notte, in salute e malattia. Il nocciolo della questione sta proprio nell’abbracciare la Croce e non tanto in quale stato viverla.

I Sacerdoti, dunque, nell’imitare il Signore Gesù lungo la via del celibato per il Regno, fanno l’amore su un talamo speciale che è quello della Croce, perché si donano totalmente in corpo e anima, giorno e notte, in salute e malattia, senza chiedere nulla in cambio e senza cercare il proprio piacere, per vivere una fecondità che restituisce il centuplo già a partire da quaggiù.

E noi sposi abbiamo bisogno di contemplare queste vite sante per imparare ogni giorno di più ad amarci con cuore puro dentro quel grande Mistero che tutti ci abbraccia: l’amore ardente e appassionato di Cristo per la Sua Chiesa.

Arrivederci al mese prossimo!




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