Scuola

“Fuori le famiglie dalla scuola!”

17 Agosto 2021

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Le prove INVALSI hanno messo in luce una situazione problematica per la Scuola italiana, soprattutto per quelle del Sud Italia. Come la mettiamo per la famosa alleanza scuola-famiglia?

“I genitori a scuola non ci devono mettere piede. Nemmeno per i consigli di classe. I genitori che hanno preso il sopravvento e che vogliono saperne di più dei professori non ci devono essere”. Parola di Raffaele Morelli, psichiatra. La frase non è recente. Risale al 2019 ed era riferita ad un episodio accaduto a Napoli. Torna alla memoria in questi giorni, però, perché, a seguito della pubblicazione dei dati INVALSI sulle prove svoltesi quest’anno, molti hanno ragionato così. 

Andiamo per ordine. L’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, meglio noto con l’acronimo INVALSI, ha il compito effettuare verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti e sulla qualità complessiva dell’offerta formativa delle istituzioni di istruzione e di istruzione e formazione professionale, in particolare gestisce il Sistema Nazionale di Valutazione, studia le cause dell’insuccesso e della dispersione scolastica con riferimento al contesto sociale ed alle tipologie dell’offerta formativa, effettua le rilevazioni necessarie per la valutazione del valore aggiunto realizzato dalle scuole. In sostanza valuta il sistema dell’apprendimento in Italia, per migliorarlo. Nonostante ciò, tuttavia, le prove proposte dall’Istituto non sono mai state viste di buon occhio dalla maggioranza dei docenti e delle famiglie. Sarebbe interessante chiedersi il perché, ma non è ciò che voglio fare in questo articolo. Nell’anno del primo lockdown non furono svolte, col sollievo dei detrattori. Quest’anno, a sorpresa, si sono tenute con grande sforzo organizzativo da parte delle scuole che si sono dovute districare tra calendari nazionali e chiusure locali diversificate. C’era attesa per i risultati, che sono arrivati, almeno nella parte generale, mostrando, in definitiva, l’accentuazione di fenomeni che erano già in atto da anni.

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La Scuola primaria riesce a tenere. Il confronto degli esiti della Scuola primaria del 2019 e del 2021 ci restituisce un quadro sostanzialmente stabile. La Scuola primaria è riuscita quindi ad affrontare le difficoltà della pandemia garantendo risultati pressoché uguali a quelli riscontrati nel 2019. Per quanto riguarda la Scuola secondaria di Primo grado, rispetto al 2019, i risultati del 2021 di Italiano e Matematica sono più bassi, mentre quelli di Inglese (sia listening sia reading) sono stabili. Similmente è avvenuto per la Scuola secondaria di Secondo grado.  Il fatto è che la situazione generale era già problematica nel 2019. Ne esce con le ossa rotte la scuola del Sud Italia con percentuali altissime di alunni che non raggiungono il livello minimo, grande divergenza tra istituti e anche tra sezioni all’interno dello stesso istituto. Da ciò nasce una prima considerazione, quindi: in Italia non a tutti è garantito lo stesso grado di diritto all’istruzione. Di chi la colpa? Si discute. C’è poi un aspetto che nella nostra società trova sempre meno spazio. In tutte le materie le perdite maggiori di apprendimento si registrano tra gli allievi che provengono da contesti socio-economico-culturali più sfavorevoli. Inoltre, tra questi ultimi diminuisce di più la quota di studenti con risultati più elevati. In altre parole, vanno bene i figli delle famiglie che già hanno un buon livello di vita. Addio all’ascensore sociale. Sembra la riproposizione dell’analisi che fa don Milani in Lettera ad una professoressa. Ma a questo punto bisognerebbe chiedersi a cosa serve la scuola se vanno bene solo coloro che potrebbero benissimo non aver bisogno della scuola. Un altro dato che ha suscitato discussione è quello che vede moltissimi allievi del quinto anno delle superiori avere competenze degne di una terza media. Non la faccio lunga, per non annoiare, ma il quadro è chiaro: l’emergenza sanitaria conferma e amplifica ciò che già accadeva nella Scuola italiana. Lo sapevamo. Lo sappiamo. Solo in maniera fittizia quindi, all’indomani della pubblicazione dei risultati, i tg nazionali hanno gridato allo scoop. E quindi sono iniziati i processi. E qui veniamo alla citazione di Morelli riportata all’inizio. Cosa c’entrano le famiglie? E perché dovrebbero uscire dalla scuola? Si avverte, leggendo i giornali, un clima di ripensamento della nostra società. Ha iniziato Ernesto Galli della Loggia che, dalle pagine del Corriere della Sera, partendo da lontano, se l’è presa con la tendenza ad ingraziarsi i giovani che “è divenuta infatti da decenni la parola d’ordine di un Occidente sempre più vecchio e sempre più preso dalla paura di esserlo. Compiacere i giovani è divenuto così il primo comandamento di chiunque intenda apparire al passo dei tempi e magari giovane anche lui: dal ministro dell’Istruzione al sindaco dell’ultimo borgo d’Italia”. La sua ricetta è diversa: “I giovani non dovrebbero essere adulati. Adularli, compiacerli, è il modo più sicuro per rovinarli: perché così li si rinchiude nell’informe in cui essi ancora consistono e dal quale invece devono essere aiutati a uscire, «e-ducati» (condotti fuori)”. E poi è arrivato l’attacco finale: “Disgraziatamente è proprio ciò che le nostre società, a cominciare dalle famiglie, non riescono più a fare. Non sappiamo educare le nuove generazioni, dare loro una misura e un retroterra, e quindi un orizzonte di senso per l’oggi e per il domani; riempire di un contenuto positivo di attesa e di speranza gli anni d’apprendistato che esse vivono. Incapaci ormai di fare qualcosa del genere abbiamo creato uno spaventoso vuoto educativo.” Da qui nascerebbe il fallimento della Scuola italiana, che, però, non è solo suo, ci par di capire. Daniele Novara, dalle pagine di Avvenire, dopo un’ampia riflessione sul disagio che vivono gli studenti italiani, arriva a dire che “Il disagio dei nostri ragazzi ha pure una ragione più profonda localizzata nella gestione degli adolescenti italiani da parte dei genitori”. In particolare, il problema verterebbe sulla figura del Padre: “ogni volta che mi trovo a dover fare i conti con un preadolescente o un adolescente in difficoltà l’elemento ricorrente è sempre la mancanza, nell’arena educativa, della figura del padre o della configurazione pedagogica paterna”.  Le madri, che hanno gestito tutta la fase preadolescenziale fin dalla nascita, dunque, dovrebbero passare la palla al padre. Che non c’è. Ovviamente il problema è sociale. Interpella ciò che si prefigge la nostra società. Alessandro Barbano invoca addirittura, con un termine un po’ demodè, la comunità. “Che cosa c’è di più grave, per una comunità, del sapere che la metà dei suoi giovani sono rallentati? Che a diciotto anni hanno le conoscenze e le competenze di tredici? Che la loro incapacità di scrivere, comprendere un testo, organizzare un discorso, risolvere problemi condizionerà in maniera irreversibile le relazioni personali, la carriera, la stessa vita di una generazione? Niente dovrebbe destare maggiore allarme di un’emergenza educativa come questa, senza precedenti nella storia repubblicana”.

Ricapitolando: la scuola e la formazione vivono una grande fase problematica. A tale situazione siamo giunti assieme, famiglie e scuola. Perché c’è stato probabilmente (eufemismo cautelativo) una sovrapposizione di ruoli, per cui i genitori giudicano gli insegnanti che si lamentano del brutto lavoro fatto dai primi. Siamo nel pieno di un circolo vizioso, come si vede, che propone problemi da entrambi i versanti della cattedra. Il filosofo Galimberti ha riassunto tutto dicendo che: “Occorrono insegnanti affascinanti ma non è così. Oggi il ragazzo si deve ritenere fortunato se su nove docenti ne ha due carismatici, e questo è un grosso problema. Prima di essere mandati in cattedra, gli insegnanti dovrebbero essere sottoposti a un test di personalità, per comprendere se hanno la passione dell’insegnamento, ma da parte loro i genitori devono mettersi in testa che i docenti devono essere difesi. Sempre.” Forse è ciò che intendeva dire Morelli quando diceva che le famiglie devono uscire dalla scuola. Se è così, sono d’accordo. Stando a ciò che vedo dalla cattedra, trovo molto più vicina alla realtà, la fotografia che ne fatto Pinella Crimì, membro del Consiglio direttivo del Forum delle Associazioni Familiari quando ha scritto: “Tuttavia è necessario che i territori e, soprattutto, le famiglie si sentano coinvolti nella sfida che dovrà portare tutti i ragazzi in classe già a partire da settembre, attraverso un sistema efficiente di trasporti, la condivisione di regole di sicurezza, la presenza nelle aule di dispositivi adeguati di protezione e un nuovo rapporto scuola-famiglia, fondato su una reale corresponsabilità educativa, in cui al centro sia lo studente e il suo successo formativo e scolastico, in una visione capace di superare una prassi in cui l’importanza fondamentale è data al voto e, quindi, alla prestazione, e non al raggiungimento reale delle competenze e alla costruzione del progetto di vita dei ragazzi”. Un nuovo rapporto scuola famiglia è, forse, ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno. Le due istituzioni educative non sono contrapposte, lavorano sullo stesso campo: il ragazzo in formazione. Non dovrebbero avere scopi divergenti. Ecco perché, cito ancora la Crimì, bisognerebbe “studiare nuove modalità di relazione educativa, rivedere una prassi valutativa capace di valorizzare il percorso di ogni studente, mettere al centro il vissuto e l’esperienza dei ragazzi nella progettazione e coinvolgere i genitori nella vita e nelle scelte educative della scuola.” Come si vede, il dibattito è aperto. Se l’Istituto INVALSI doveva servire solo a questo, l’esito è positivo. Resta, tuttavia, una collaborazione tutta da costruire. Probabilmente la vera sfida dell’anno scolastico che sta per iniziare. 




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