Il Vangelo letto in famiglia

XXIII Domenica del tempo ordinario – Anno B – 5 settembre 2021

Imparare a fissare il Cielo

Guardare il cielo ci ricorda che siamo chiamati a qualcosa di più grande. Smettiamola di soffermarci sui nostri piccoli orizzonti, che il più delle volte si rivelano banali e stupidi; smettiamola di concentrarci su problemi futili che trasformiamo in macigni grossi. Così facendo, dimentichiamo che in realtà siamo chiamati a una relazione con il cielo, a qualcosa di infinitamente grande, proprio come il cuore di Dio, che non ha confini ed è aperto su di noi.

Dal Vangelo secondo Marco (7,31-37)
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

IL COMMENTO

di don Gianluca Coppola

In questa ventitreesima domenica del tempo ordinario, la Prima Lettura, che sempre introduce il brano del Vangelo e ne fornisce una fondamentale chiave interpretativa, ci propone un brano del profeta Isaia, in cui ci sono alcune affermazioni che, in qualche modo, turbano la nostra sensibilità occidentale e post-moderna. Il profeta Isaia, infatti, afferma: «Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete!”. Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Che cosa vogliono dire queste parole? E soprattutto, perché il profeta parla di vendetta divina?

Ormai da tempo ci battiamo per sostenere che Dio è amore, è la prima cosa che insegniamo ai bambini al catechismo, a differenza di quanto avveniva per le generazioni passate. Anche Giovanni lo afferma nella Prima Lettera: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore». E ancora, Sant’Agostino sosteneva che, anche se venissero bruciate tutte le Bibbie del mondo, ma restasse un unico versetto in cui vi è scritto che Dio è amore, allora questo sarebbe sufficiente per avere fede. Dunque, Dio è amore, e su questo non c’è dubbio, la sua essenza è profondamente amore. Perché allora il profeta parla di vendetta?

Nella cultura ebraica antica, il “redentore” era propriamente il vendicatore, il campione della famiglia, il più grosso, il più muscoloso. Egli non doveva riscattare soltanto un gruppo di persone, un singolo clan, ma talvolta doveva vendicare un popolo intero. Questo appare evidente nella vicenda di Davide e Golia. In quell’episodio, infatti, Golia rappresenta proprio il campione dei Filistei che, con la sua azione singola, doveva liberare l’intero popolo dall’oppressione nemica e dall’invasore.

Nonostante il passo tratto dal profeta Isaia parli di vendetta, risulta valido ancora oggi che abbiamo capito che Dio non è guerra, anzi, è quanto di più lontano dalla vendetta armata contro coloro che ci ha fatto del male. Gesù stesso, nel Vangelo, afferma: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio, dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due». Con queste parole, Gesù condanna apertamente qualsiasi dinamica vendicativa. Esiste, però, un’ingiustizia, che tutto il genere umano vive e da cui Dio è venuto a liberarci e a vendicarci: questa ingiustizia si chiama morte, si chiama peccato, tristezza o perfino solitudine.

Il Vangelo di questa domenica presenta un uomo che soffre perché sordomuto. Innanzitutto, è opportuno ribadire che nel piano di Dio non è contemplata la sofferenza: è ingiusto che un uomo soffra, si ammali e muoia, perché nel piano di Dio non è contemplata la morte. Tutto questo scaturisce dall’ingiustizia che possiamo chiamare peccato, e in modo particolare da quel peccato che fu originale, quel primo peccato da cui deriva la sete di vendetta di Dio. Essa non si scaglia contro un uomo in carne e ossa, ma contro i dominatori di questo mondo di tenebra che hanno fatto dell’uomo libero del Paradiso terrestre uno schiavo del peccato e delle sue passioni, della concupiscenza, della malattia, della solitudine e della tristezza.

Nel brano del Vangelo in questione, Gesù affronta la malattia di un sordomuto, che assume inevitabilmente un carattere molto simbolico. Il sordomuto è infatti una persona privata al contempo della facoltà di ascoltare e di comunicare, due attività fondamentali per instaurare relazioni con il mondo che ci circonda. È una condizione estremamente invalidante, che rappresenta forse l’isolamento più completo da qualsiasi contatto esterno. Gesù, allora, guarisce il sordomuto, rivendica l’ingiustizia da lui subita, lo solleva dalla sua tragica condizione. Dio manda Gesù come vendetta contro la nostra ingiustizia, il suo sangue viene versato per riscattare la nostra ingiustizia, e dunque per riscattare la nostra solitudine, il peccato, la morte, la tristezza, la malattia e tutto ciò che nel piano di Dio non era contemplato, ma esiste purtroppo perché frutto del peccato.

Gesù guarisce il sordomuto attraverso un vero e proprio processo di liberazione, facendo comprendere a ciascuno di noi la strada obbligata attraverso cui tale processo può unicamente avvenire. La liberazione avviene infatti tramite i Sacramenti della Chiesa, che ci permettono di instaurare una relazione con Cristo.

Gesù, allora, per guarire il sordomuto, «lo prese in disparte, lontano dalla folla». È un dettaglio fondamentale. In un primo momento, non comprendiamo per quale motivo una persona che già vive una condizione grave di isolamento, debba essere portata ulteriormente in disparte e allontanata dalla gente. Il primo gesto che Gesù compie per la guarigione, il primo passo in questo processo di liberazione e di vendetta contro le ingiustizie avviene dimostrando il coraggio di isolarsi dal resto del mondo, dal pensiero comune, dal rumore assordante delle nostre vite frenetiche. Quando affrontiamo un dolore, quando dobbiamo far fronte alla sofferenza, spesso pensiamo che stordirci con una serie di attività febbrili sia la soluzione giusta per superare quel momento difficile.  Gesù, invece, fa esattamente il contrario. Conduce il sordomuto, già isolato, in un altro isolamento, diverso però da quello precedente, perché questa volta è Gesù a condurlo per mano. Si tratta allora di un isolamento sano, benefico, portato avanti dinanzi al volto di Cristo. È l’isolamento che possiamo sperimentare solo nella preghiera, nell’adorazione, nella meditazione della Parola. Il primo passo, allora, per poter recuperare la nostra felicità ed essere vendicati delle nostre ingiustizie è stare da soli con Dio, trascorrere del tempo con Lui.

Dopo aver condotto il sordomuto in disparte, Gesù compie una serie di gesti che, inutile negarlo, possono sembrare in parte disgustosi. Come prima cosa, infatti, «gli pose le dita negli orecchi». Questo gesto ha un significato profondo e non a caso nella preghiera “Vieni, o Spirito creatore”, lo Spirito Santo viene definito “dito della mano di Dio”. Dopo aver condotto l’uomo nella solitudine, lontano dal rumore del mondo, Dio pone le dita nelle nostre orecchie e ci predispone all’ascolto della sua Parola. È fondamentale che Gesù compia questo gesto: non è Lui a parlare al sordomuto, gli tocca le orecchie, a significare che la Parola di Dio è in realtà concreta, parla di cose vere, testimonia le opere che Dio ha compiuto attraverso le sue mani che creano, che hanno operato veramente nella storia.

Allora, solo dopo l’isolamento, che consiste nella preghiera e nell’adorazione, siamo resi capaci di ascoltare cose buone. Nella vita di tutti i giorni, siamo bombardati continuamente da notizie attraverso la televisione, la radio e tutti gli altri mezzi di comunicazione. Le nostre orecchie ricevono informazioni da ogni parte e, purtroppo, molte volte accolgono notizie deleterie, negative, controproducenti. Dobbiamo compiere la scelta consapevole di far entrare nelle nostre orecchie ciò che proviene da Dio, ciò che passa attraverso la lettura del Vangelo e della Bibbia, e dunque dedicare maggior tempo alla meditazione della Parola.

Dopo aver toccato le orecchie del sordomuto, Gesù compie un altro gesto: bagna, con la sua saliva, la lingua dell’uomo. La saliva è necessaria per parlare, come spesso si accorge chi parla tanto e sperimenta una secchezza alla gola. Allora capiamo che, dopo l’isolamento e la solitudine, dopo aver contemplato le opere di Dio attraverso l’ascolto della Parola, c’è un terzo passaggio: è il momento di aprire la bocca e di non essere più timidi, di diventare evangelizzatori, di fare in modo che sulla nostra bocca periscano tutte le menzogne, le bestemmie, le maldicenze e i pettegolezzi. Dobbiamo fare in modo che le nostre labbra siano bagnate dalla saliva di Dio, a testimonianza di ciò che Dio ha fatto di bello nella nostra vita, di ciò che Dio ha compiuto per noi.

Tutto questo viene corredato da un ultimo gesto di Gesù. Prima di dire: «Effatà», che significa «Apriti» (che è, tra l’altro, la parola che pronunciamo nel rituale del Battesimo, il che ci ricorda come tutti noi siamo stati già vendicati e riscattati in quel sacramento), Gesù guarda verso il cielo. È bellissimo, perché il cielo non è semplicemente un coperchio su di noi, ma decisamente qualcosa di più grande.  Quando guarda il cielo, Gesù vuole far comprendere a tutti noi di non essere soli, ci dimostra ancora una volta il fatto che possiamo cibarci della Parola di Dio per essere felici, di avere a disposizione un manuale per la vita. Ci ricorda che, in qualsiasi momento, sopra di noi c’è il cielo, e dunque Dio.

La nostra vita, la nostra gioia e la nostra vendetta sana allora dipenderanno unicamente dalla nostra relazione con il cielo. Guardare il cielo ci ricorda che siamo chiamati a qualcosa di più grande. Smettiamola di soffermarci sui nostri piccoli orizzonti, che il più delle volte si rivelano banali e stupidi; smettiamola di concentrarci su problemi futili che trasformiamo in macigni grossi (penso ad alcune relazioni matrimoniali e a beghe familiari, condominiali o parrocchiali). Così facendo, dimentichiamo che in realtà siamo chiamati a una relazione con il cielo, a qualcosa di infinitamente grande, proprio come il cuore di Dio, che non ha confini ed è aperto su di noi.

Non sappiamo esattamente come va a finire la storia del sordomuto, il Vangelo non lo specifica. Ma io e te, cosa abbiamo deciso di fare? Fissiamo bene nella nostra mente, allora, i tre momenti fondamentali che questo Vangelo ci indica: la solitudine vissuta nel Signore e lontano dal frastuono del mondo, l’ascolto delle grandi opere di Dio attraverso la Parola, e l’annuncio e la testimonianza che devono avvenire attraverso le nostre labbra rinnovate. Soltanto così, ricorderemo sempre che sopra di noi c’è un cielo immenso, da cui abbiamo ricevuto il nostro Vendicatore, Colui che ha strappato l’odio dai nostri cuori e nel suo sangue ha posto l’amore.



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Gianluca Coppola

Gianluca Coppola (1982) è presbitero della Diocesi di Napoli. Ha la passione per i giovani e l’evangelizzazione. È stato ordinato sacerdote il 29 aprile 2012 dopo aver conseguito il baccellierato in Sacra Teologia nel giugno del 2011. Dopo il primo incarico da vicario parrocchiale nella Chiesa di Maria Santissima della Salute in Portici (NA), è attualmente parroco dell’Immacolata Concezione in Portici. Con Editrice Punto Famiglia ha pubblicato Dalla sopravvivenza alla vita. Lettere di un prete ai giovani sulle domande essenziali (2019) e Sono venuto a portare il fuoco sulla terra (2020).

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