La denuncia dell’arte: partire o restare? A Kabul è il collasso dei sogni…

Mentre le grandi testate si concentrano sui negoziati e gli accordi internazionali, il cinema e l’arte ci raccontano la disperazione della gente. Uomini, bambini e donne, spesso incinte, che pagano il prezzo più alto.

Il potere talebano dilaga, anche la Valle del Panjshir, ultima roccaforte della resistenza al nuovo governo è caduta nelle loro mani. Lo ha fatto sapere il portavoce talebano Zabihullah Mujahid, annunciando quindi la fine della guerra in Afghanistan. Anche se i talebani tentano di comunicare un volto più moderato le notizie che arrivano non sono certo confortanti. Una poliziotta nella provincia centrale di Ghor è stata uccisa. La donna lavorava nella prigione locale ed era incinta di otto mesi. È stata freddata in casa di fronte ai suoi parenti da uomini che, secondo un testimone, parlavano arabo e non pashtu. Un’altra protesta pacifica di donne è stata repressa e insomma l’aspetto che ne viene fuori non è quello che i talebani cercano di comunicare nei negoziati aperti con l’Onu. 

La gente comune soffre, sono giorni che nessuno vorrebbe mai vivere. Lo hanno sottolineato le parole di due registe afghane Sahraa Karimi e Sarah Mani che, alla 78ma Mostra del Cinema di Venezia dove è stato organizzato un incontro sul cinema afghano, hanno lanciato un drammatico appello: “Chiediamo alla comunità internazionale del cinema di non abbandonare l’Afghanistan”.

A Venezia la Mani ha presentato Kabul Melody un docufilm che racconta l’unica scuola di musica per ragazzi e ragazze fondata dal professor Ahmad Sarmast ora completamente distrutta dai talebani. La regista Sahra Karimi, invece, il 13 agosto, esattamente due giorni prima della caduta di Kabul, aveva scritto una lettera aperta che denunciava la cultura dei talebani e invitava la comunità internazionale a non abbandonare gli afghani. “Ero nel mezzo alla produzione del mio secondo film, – spiega la regista – dal mattino alla sera ho dovuto prendere, come tanti, la decisione più importante della mia vita, partire o restare, davanti a noi il collasso dei nostri sogni e della nostra nazione”. Parole difficili da accettare. Sembrano uscite da un’altra epoca, di quelle che vediamo dai film o dai documentari e invece, accade proprio oggi.

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Sono tantissime “le menti brillanti” scappate dall’Afghanistan in poche ore. E quelle che non sono riuscite a fuggire sono state brutalmente uccise come è accaduto a Khasha Zwan il comico morto in maniera violenta per mano dei Talebani. Lo si vede ridere in un video diffuso in Rete con quell’ironia che caratterizzava il suo talento e poco dopo è stato trovato senza vita. “Sognavamo di produrre film per mostrare la bellezza della nostra nazione. Abbiamo supportato i nostri politici, ma loro ci hanno traditi e il mondo ci ha traditi” sostiene ancora la regista a Venezia. “I talebani cercano di mostrare la faccia soft, ma sono crudeli come prima e più furbi perché usano le moderne tecnologie, il cinema e l’audiovisuale per la propaganda, La nostra generazione non lo vuole, per questo chiediamo di supportare la nostra voce. Non dimenticatevi dell’Afghanistan”.

Lo stesso motivo è cantato anche dalla documentarista afghana Sahra Mani: “Noi stavamo combattendo per un Paese migliore ma gli eventi delle ultime settimane ci hanno lasciato senza alcuno strumento. Alcuni giorni fa è stato arrestato un musicista solo perché suonava uno strumento. Come è possibile che dei terroristi internazionali abbiano potuto travolgere una parte del mondo. Oggi è il mio popolo che ha perso tutto ma un domani potrebbe raggiungere un’altra parte del mondo. Dobbiamo interrogarci su cosa possiamo fare”, ha sottolineato Mani. 

L’arte, in tutte le sue voci, continua a denunciare ciò che succede in Afghanistan non come fanno i titoli delle grandi testate più interessate agli accordi internazionali ed economici che alle persone. L’arte ci racconta quello che si vive nelle strade e nelle case, tra la gente comune, quelli che sono rimasti e che vivono in un clima di incertezza e di terrore. Mentre da Venezia si eleva con potenza l’appello del Cinema, sul web è la street artist Shamsia Hassani a farsi paladina da tempo dei diritti delle donne, denunciando non solo la guerra ma anche le condizioni disumane dell’universo femminile nel Paese mediorientale.

Con quelle sue raffigurazioni così delicate e distinte, Shamsia Hassani classe 1988, sembra dare una veste luminosa anche alle mura sgretolate e ai palazzi diroccati. Le sue donne sono piccoli grandi punti di luce su scenari bui. Con gentilezza ed eleganza le donne di Shamsia aprono squarci di speranza e di bellezza in un contesto di terrore e paura. Parlando del suo lavoro in una intervista ad Art Radar, Shamsia ha detto: “Voglio colorare i brutti ricordi della guerra. Voglio rendere l’Afghanistan famoso per la sua arte, non per la sua guerra”. È questo l’Afghanistan di cui mi piacerebbe parlare nei miei articoli. Quelli in cui il terrore e la guerra sono “acqua passata”, un errore che non si ripeterà. 

La storia ci racconta da sempre di regimi dittatoriali che dopo un breve periodo di splendore collassano su sé stessi. Il governo del terrore non ha mai avuto vita lunga, speriamo che anche in questa occasione torneremo presto a vedere l’alba. 




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Ida Giangrande

Ida Giangrande, 1979, è nata a Palestrina (RM) e attualmente vive a Napoli. Sposata e madre di due figlie, è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II. Ha iniziato a scrivere per il giornale locale del paese in cui vive e attualmente collabora con la rivista Punto Famiglia. Appassionata di storia, letteratura e teatro, è specializzata in Studi Italianistici e Glottodidattici. Ha pubblicato il romanzo Sangue indiano (Edizioni Il Filo, 2010) e Ti ho visto nel buio (Editrice Punto famiglia, 2014).

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