“Io non avevo solo bisogno di mamma e papà… Volevo una famiglia”

tristezza

Che fine fanno i figli delle coppie separate? Me lo sono chiesta dopo aver letto il messaggio di un ragazzo: “I miei si sono separati. Tutti si impegnavano a riempirmi di parole. Nessuno voleva ascoltare le mie di parole. Io volevo una casa in cui tornare. Un nido in cui rifugiarmi per sentirmi al sicuro. Da quel momento infatti ho smesso di sentirmi al sicuro”.

“Ciao Ida, sono Game over, ho 21 anni e mi sono dato questo nome perché non voglio rivelare la mia identità. Non dire come mi chiamo mi aiuta a raccontare la verità sulle mie sensazioni senza che nessuno lo sappia. Senza che i miei genitori si sentano in colpa. Si sono separati ed io sono stato sballottato tra due famiglie fin da quando avevo 13 anni. Di tanto in quando qualcuno della famiglia mi veniva accanto, mi batteva una mano sulla spalla e mi ripeteva sempre la stessa manfrina: se non vanno d’accordo è meglio che si separano. Non è per colpa tua. Ti vorranno bene lo stesso non smetteranno certo di essere i tuoi genitori. Erano convinti di sapere cosa volevo io. Tutti si impegnavano a riempirmi di parole. Nessuno voleva ascoltare le mie di parole. Io non avevo solo bisogno di mamma e papà. Volevo una famiglia. Una casa in cui tornare. Un nido in cui rifugiarmi per sentirmi al sicuro. Da quel momento infatti ho smesso di sentirmi al sicuro”.

Cosa rispondere a un ragazzo che ti scrive cose come queste? Quali parole usare per lenire le sue sofferenze? Inutile dire che mi sono dovuta limitare a usare frasi di circostanza, nella certezza che solo una preghiera intensa può veramente cambiare il cuore e la prospettiva delle cose. Ma l’episodio ha aperto uno squarcio su un mondo che avevo accantonato da un po’: che fine fanno i figli delle coppie separate? Chi si impegna ad ascoltare le loro parole? Il divorzio o la separazione sono davvero un bene assoluto? Una cosa talmente normale da non farci più caso?

Beninteso: ogni caso è un universo a sé. Ci sono circostanze e situazioni in cui bisogna ricorrere ai famosi “estremi rimedi”. Circostanze in cui una separazione temporanea tra i coniugi può aiutare. Pensa ai casi di violenza domestica ad esempio dove la vita coniugale si trasforma in un vero inferno. Ma questi sono “estremi” appunto e non posso pensare che tutte le coppie che divorziano vivono situazioni “estreme”. Mi viene più facile pensare che il divorzio sia diventato la soluzione più facile e a portata di mano, quella che dona una seconda possibilità, almeno ai genitori perché i figli sono costretti ad accettare questa decisione e basta. Mi colpisce lo pseudonimo con cui questo ragazzo si spaccia in Rete: Game over, vuol dire infatti “gioco concluso” e penso che non sia un’espressione tanto indicata per un ragazzo di 21 anni con una vita da vivere e tanti progetti da realizzare. Penso che questo pseudonimo sia già un messaggio che il ragazzo sta cercando di lanciare, una forma di comunicazione. Le parole di questo lettore hanno stimolato una serie di interrogativi: quanti game over ci sono in giro per il mondo? Quanti sono i figli di matrimoni finiti che preferiscono sfogarsi in giro con una sconosciuta usando un nome finto pur di tutelare i genitori? Che vorrebbero una famiglia, un papà e una mamma possibilmente insieme? La rivoluzione culturale che stiamo vivendo ha fatto della separazione e del divorzio il segno della modernità e dell’emancipazione insieme a tante altre cose che non sto qui ad elencare. Questo ha portato anche ad una semplificazione dei processi giuridici per accorciare i tempi del divorzio. Dall’altro lato però non è stato fatto nulla per aiutare le coppie in crisi, nessuno sportello, nessun centro di ascolto salvo qualche tentativo qua e là poco conosciuto. Se si vuole accedere alle terapie di coppia bisogna essere pronti a pagare un conto salato che tante famiglie non possono permettersi. A parte alcune preziose realtà come il Programma Retrouvaille, Mistero grande di don Renzo Bonetti e poche altre, spesso anche le parrocchie non offrono percorsi di sostegno significativi.

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Gli effetti di questo andamento culturale sono visibili anche ad occhio nudo. Nel 2019 sono stati celebrati in Italia 184.088 matrimoni, 11.690 in meno rispetto all’anno precedente (-6,0%).  A dirlo è il Report matrimoni, unioni civili, separazioni e divorzi dell’Istat per l’anno 2019. Il calo riguarda soprattutto i primi matrimoni. Scendono anche le seconde nozze o successive (-2,5%) ma aumenta la loro incidenza sul totale: ogni 5 celebrazioni almeno uno sposo è alle seconde nozze. I divorzi diminuiscono leggermente (85.349, -13,9% rispetto al 2016, anno di massimo relativo) dopo il boom dovuto agli effetti delle norme introdotte nel 2014 e nel 2015 che hanno semplificato e velocizzato le procedure appunto. Pressoché stabili le separazioni (97.474). L’anno 2020 con l’incidenza della pandemia è stato un anno nero a giudicare dai dati che ci pervengono. Secondo l’Associazione nazionale divorzisti con il lockdown, c’è stato un aumento annuo delle separazioni del 60%.

In uno scenario come questo a parte i “casi estremi” è lecito domandarsi se tutte queste separazioni sarebbero evitabili prestando maggiori attenzioni agli sposi. Parlo di un’attenzione sociale non solo ecclesiale o pastorale. A partire dalle condizioni di lavoro; gli effetti della precarietà economica e professionale sulla coppia sono tangibili e conosciuti da sempre. Dopo anni di polemiche sulla disoccupazione non è stato ancora fatto granché al fine di garantire un’occupazione stabile ai giovani. Una possibilità di inserimento nel mondo del lavoro che dia almeno il minimo indispensabile per portare avanti una famiglia, per pensare ai figli. La stessa attenzione andrebbe rivolta anche all’idea che i media hanno diffuso del matrimonio. Sono anni ormai che si parla del vincolo coniugale come della tomba dell’amore, del diritto di cercare la propria felicità non quella dell’altro. A questa cultura dell’individualismo e dell’esaltazione di sé bisognerebbe rispondere con il racconto attento dell’amore come donazione di sé e attenzione all’altro più che a sé stessi. Gli stessi principi di fedeltà e sacrificio sono stati divorati come carta al macero. Se riprendessimo da questi piccoli grandi passi le cose andrebbero meglio? Lascio a voi la risposta…




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Ida Giangrande

Ida Giangrande, 1979, è nata a Palestrina (RM) e attualmente vive a Napoli. Sposata e madre di due figlie, è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II. Ha iniziato a scrivere per il giornale locale del paese in cui vive e attualmente collabora con la rivista Punto Famiglia. Appassionata di storia, letteratura e teatro, è specializzata in Studi Italianistici e Glottodidattici. Ha pubblicato il romanzo Sangue indiano (Edizioni Il Filo, 2010) e Ti ho visto nel buio (Editrice Punto famiglia, 2014).

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