Da dove nasce la concupiscenza?

Adam et Eve chassés du paradis

Mottez, Victor-Louis, Adam et Eve chassés du paradis (particolare), Paris Musées / Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris, Petit Palais

Prima del peccato originale, l’uomo e la donna sono in piena comunione. Dopo la trasgressione, le cose cambiano radicalmente e anche la differenza sessuale è avvertita e compresa come un elemento di reciproca contrapposizione tra persone. Come ritrovare quell’antica e autentica armonia?

Il capitolo secondo della Genesi costituisce la più antica descrizione e registrazione dell’auto-comprensione dell’uomo e, insieme al capitolo terzo, la prima testimonianza della coscienza umana. Dio modella l’uomo con la polvere del suolo e gli soffia nelle narici il respiro che gli permette di vivere, poi pianta un giardino-frutteto in cui lo colloca con il duplice compito di coltivare e custodire. In mezzo al frutteto vi sono l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male o albero della norma. Dei frutti di quest’ultimo il Signore Dio proibisce all’uomo di mangiare, pena la morte. L’attività di assegnare un nome agli animali sottolinea la singolare autorità dell’uomo sopra la creazione: è stato creato con uno statuto ontologico diverso dal resto degli animali e come Dio domina la creazione, così l’uomo esercita un dominio sopra il creato. Dare il nome, infatti, è un’attività propriamente divina che indica il dominio sulla realtà a cui il nome viene conferito. 

Il dominio che l’uomo esercita sulla creazione non lo appaga: “Non trovò un aiuto che gli fosse simile” (Genesi 2, 20). Egli si presenta come il re di quel creato che tuttavia non è capace di colmare il suo cuore. La sua vita non può essere colmata con il solo lavoro, egli avverte una grande solitudine. In essa appare l’originalità del soggetto umano in quanto individuo diverso da tutto il creato ed in essa egli scopre la capacità di autocoscienza della propria originalità. Adamo solitario in un mondo di oggetti comprende che non si autodetermina con le cose che lo circondano. Anzi, la sua stessa identità, quando guarda il creato, gli appare sconosciuta: qual è il motivo della sua creazione e il motivo del suo legame con essa, se non è capace di colmare la sua soggettività? Qual è il suo posto nella totalità della creazione? Questa solitudine è posta in risalto dal racconto biblico perché essa precede la creazione della donna. Di fronte alla noia e all’angoscia di una vita tra le cose, Adamo entra in un sonno, il suo primo sonno, nel quale la vita cosciente si attenua, la libertà si sospende e tutto ciò che è tipicamente umano s’immerge nelle nebbie dell’incoscienza. Sembra che Adamo voglia ritornare al nulla da cui è venuto perché un mondo pieno solo di oggetti non merita di essere vissuto.

Il Creatore, allora, si rimette all’opera e questa volta non usa più la polvere del suolo ma una parte del corpo stesso dell’uomo: una delle sue costole con la quale crea una (la) donna. Il torpore di Adamo (in ebraico tardemah) è un profondo sonno in cui l’uomo cade senza conoscenza o sogni. È importante notare che l’uomo non è consultato né prima e né durante la creazione di Eva. La donna non è stata fatta su ordinazione. Non è una proiezione di desideri maschili. La donna è pensata e fatta direttamente da Dio per il bene dell’uomo. L’uomo, al risveglio, se la ritrova davanti e, come agli animali, deve darle un nome. Il narratore biblico non si era dato la pena di riferire i nomi degli animali, invece dà grande risalto al nome che l’uomo inventa per la donna. Sono le prime parole umane riportate nella Bibbia, in Genesi 2, 23, ed esprimono l’originalità di questo incontro: “Allora l’uomo disse: questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna (’iššāh), perché dall’uomo (’îš) è stata tolta”. 

L’espressione di Adamo porta in sé una nuova forma di conoscenza e cioè il riconoscimento della propria identità nel riconoscimento della dignità e differenza della persona che gli si rende presente attraverso il suo corpo. È importante rilevare come l’incontro tra Adamo ed Eva sia stato possibile grazie alla presenza del corpo, “mezzo” che rende possibile la relazione con il mondo e con il corpo di un’altra persona. Siamo di fronte al primo incontro che avviene tra l’uomo e la donna ed è proprio in questo incontro che ha luogo una rivelazione singolare della propria identità personale. È in quel momento che Adamo prende coscienza di sé di fronte alla presenza di sesso opposto comprendendo, solo allora, la sua solitudine e incompletezza che aveva sperimentato prima della creazione della donna. Adamo riconosce che la sua esistenza corporea (sessualmente differenziata) si spiega in maniera piena soltanto in unione con la donna. Riconosce, inoltre, che è possibile comprendere il suo essere solo in questa “unità duale” o “unità dei due”. Egli riconosce che non è possibile comprendere la propria esistenza al di fuori di questa unione originaria. La persona, formata di corpo e anima, possiede una qualità comunionale, ontologicamente aperta alla comunione con l’altro, al dono di sé per l’altro.

Questo essere come dono riguarda tutta la realtà della persona, ma in modo particolare trova la sua espressione e realizzazione nella relazione uomo-donna attraverso la sessualità, attraverso la corporeità. Come scrive Giovanni Paolo II in una sua catechesi: “Il corpo, con il suo sesso, (…) racchiude fin dal principio, l’attributo sponsale, cioè la capacità di esprimere quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e – mediante questo dono – attua il senso stesso del suo essere ed esistere” (XV,1). Il valore unico della persona può essere affermato attraverso il dono di sé che passa anche attraverso la sessualità che coinvolge l’intera persona. Il dono, per essere tale, però, deve essere libero da ogni costrizione che provenga dal sesso e dal corpo. Libertà intesa come padronanza di sé, auto-dominio: solo in questo modo, infatti, l’uomo riesce a donare tutto se stesso.

Il capitolo secondo della Genesi si conclude con il verso 25: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna”. Prima della disobbedienza, l’uomo e la donna non si vergognano perché non hanno commesso nulla di cui vergognarsi e sono nudi perché non hanno nulla da nascondere. Il loro sguardo è capace di penetrare il mistero che racchiude la corporeità, senza vergogna, proprio perché s’incentra sul significato sponsale, cioè riferito alla comunione tra i due. La loro nudità è peraltro nudità di marito e di moglie, non di due estranei; sono una sola carne e ciascuno dei due guarda pertanto il corpo dell’altro come se fosse il suo proprio corpo e non è di conseguenza imbarazzato nel posarvi sopra gli occhi. Tra i due vi è una grande intimità. La porta che apre questo spazio interiore è il riconoscimento reciproco.

Le cose cambiano, radicalmente, dopo la trasgressione: mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male. La comunione presente tra i due, in seguito a tale infausto gesto, si trasforma in complicità e il complice è inevitabilmente un nemico. Non si guarda, infatti, una persona allo stesso modo quando si viene a conoscenza di una sua colpa. Ciò di cui si ha vergogna non è in realtà il corpo, ma la colpa. Si osserva, infatti, un cambiamento radicale nello sguardo di entrambi. Ora ciascuno, con la vergogna sopraggiunta, è spinto a nascondersi per paura dell’altro se stesso, che, non vedendo più la profondità e il giusto valore di sé, tende a ridurlo ad un oggetto da far proprio. La vergogna di cui si parla in questo capitolo, quindi, è un sentimento sociale e non personale; è la perdita di dignità e di onore agli occhi di un altro. 

La vergogna, che scaturisce dal peccato, introduce tra Adamo ed Eva una grande distanza, distruggendo l’una sola carne. È proprio in questo momento che il primo uomo e la prima donna non possono più fare esperienza di quella nudità originaria nella quale il corpo era capace di manifestare tutta la profondità dell’essere umano, quando ciascuno poteva vedere l’altro con lo sguardo di Dio secondo la verità del suo essere. Quando entrambi cessano di essere l’uno per l’altro un dono “disinteressato”, come era in principio, allora vedono che “sono nudi” e nasce, tra loro, il riserbo e il pudore che è l’agire per indirizzare lo sguardo dell’altro non su ciò che si possiede, a livello fisico e sessuale, ma su ciò che si è e, quindi, verso gli occhi e l’anima. Il corpo sessuato visto nel mistero della creazione, è non soltanto sorgente di fecondità e quindi di procreazione ma racchiude in sé l’attributo sponsale, cioè la capacità di esprimere l’amore nel quale l’uomo-persona diventa dono attuando così il senso stesso del suo essere ed esistere. In questo modo la donazione vicendevole crea la comunione delle persone cioè il dono reciproco mediante il loro corpo. È questo significato ciò che viene scombussolato dalla disobbedienza, rendendo, quindi, necessario l’avvento del pudore.

La necessità di nascondersi, al ritorno di Dio, sottolinea che, oltre alla vergogna, primo frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, è maturato un senso di paura di fronte a Dio: paura precedentemente ignota. «Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”» (Genesi 3, 9-10). La nudità a cui si fa riferimento non è soltanto corporale ma rappresenta anche l’uomo privo della partecipazione al Dono che era stato la sorgente del proprio significato. L’immagine di Dio, impressa nella creatura, subisce un danno. L’uomo ora non riesce a dominare il proprio corpo con la stessa naturalezza dell’uomo dell’innocenza originaria. Il pudore, che nasce contestualmente alla vergogna e al desiderio sessuale smodato, è sempre relativo alla propria sessualità nei riguardi dell’altro essere umano. L’uomo, dopo il peccato originale, guarda una donna per desiderarla. È questo il motivo per cui Cristo in Mt 5, 27-28 parla del desiderio come adulterio commesso nel cuore umano. La differenza sessuale è avvertita e compresa come un elemento di reciproca contrapposizione tra persone. Il pudore, conseguenza della concupiscenza, porta a chiudersi alla capacità di una piena comunione reciproca: è come se la sessualità diventasse ostacolo nel rapporto personale dell’uomo con la donna.

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In Genesi 3, 16 viene sottolineato, all’interno del lungo monologo di Dio, il futuro rapporto di entrambi: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. Le parole di Dio pronunciate nei confronti della donna sembrerebbero riferirsi ad una sorta di “menomazione” o di disuguaglianza sociale di questa nei confronti dell’uomo. Questa sorta di disuguaglianza, in realtà, non sarà percepita solo dalla donna, ma da entrambi perché si riferisce non solo al rapporto coniugale dell’essere una sola carne ma all’intera relazione dei due: i due avvertiranno una mancanza di piena unità. L’uomo e la donna sono, a questo punto, minacciati dall’insaziabilità del desiderio di quell’unione e unità, che non cessa di attrarre l’uno all’altro perché sono state pensate per vivere in “comunione”. La concupiscenza (questo guardare distorto) indirizza i desideri dell’uomo e della donna verso l’appagamento del corpo, spesso a discapito di un’autentica e piena comunione delle persone. Se tale impulso prevale da parte dell’uomo, gli istinti che la donna volge verso di lui possono assumere un carattere analogo e forse talvolta prevengono il desiderio dell’uomo, o tendono perfino a suscitarlo e a dargli impulso.

Prima del peccato, il corpo era capace di esprimere l’amore con cui l’uomo-persona diventa dono, avverando così il senso del proprio essere e del proprio esistere nella comunione delle persone ad “immagine di Dio”. Il peccato limita e deforma quell’oggettivo modo di esistere del corpo: sembra che proprio il cuore dell’uomo non riesca più a raggiungere quella profonda unione personale così da trasformare tale desiderio in una semplice attrazione fisica al pari del mondo animale. A motivo del corpo l’uomo diviene oggetto per l’uomo e la concupiscenza trasforma i rapporti personali riducendoli al corpo e al sesso: in questo modo i rapporti diventano incapaci di accogliere il dono reciproco della persona. Si ha la perdita della libertà interiore del dono. L’uomo e la donna possono diventare dono se ognuno di loro domina se stesso. Altrimenti il rapporto del dono si muta nel rapporto di appropriazione.

Le parole di Gesù nel discorso della montagna in Mt 5, 28: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” sembrano trasferire il significato dell’adulterio dal corpo al cuore. Il Signore intavola un discorso molto più profondo che si allontana dalla legislazione e dalla casistica dell’adulterio per esaminare il desiderio dell’uomo, un desiderio non più innocente. L’uomo che guarda “per desiderare” è un uomo concupiscente perché “desidera” e “guarda per desiderare”. In “principio”, invece, nel giardino di Eden, Adamo ed Eva vivevano in piena comunione tra di loro e con il creato: i loro occhi erano puri, cioè guardavano l’altro solo per amarlo e volerne il bene. Il guardare è un atto conoscitivo, ma quando nella sua struttura interiore entra la concupiscenza, esso assume un carattere di conoscenza desiderosa. Quindi Cristo, con le sue parole, vuole indicare il distacco dal significato sponsale del corpo sperimentato dall’uomo quando asseconda la concupiscenza della carne. Questa perdita del significato sponsale del corpo provoca un allontanamento dell’uomo e della donna dalla loro vocazione originaria, (essere una sola carne, essere “per” l’altro) spingendoli ad utilizzare l’altro per i propri scopi utilitaristici.

Ecco perché lo sguardo, per Cristo, è molto importante: esprime ciò che è nel cuore e quindi esprime l’uomo nella sua totalità. Lo sguardo rivela l’uomo all’esterno. Cristo insiste sul significato dell’adulterio del cuore ed egli lo riferisce alle persone coniugate e non perché riguarda la dignità personale dell’uomo e della donna, ma perché riguarda la totalità della persona. L’adulterio del cuore, infatti, viene commesso tutte le volte in cui un uomo guarda una donna come oggetto di soddisfacimento personale non soltanto perché non è sua moglie ma perché riduce la donna come oggetto: dunque, anche se il marito guarda in questo modo la moglie commette adulterio. Potremmo dire che tale adulterio è ancora più grave perché va ad infrangere l’essere una sola carne, l’amore tra i due, il rispetto, la stima ma soprattutto la grazia sacramentale presente in loro, perché l’uomo si serve della donna, della sua femminilità per appagare il suo istinto. Lo stesso ragionamento vale, ovviamente, anche a parti invertite. Il discorso della montagna non è un’accusa nei confronti dell’uomo, ma una chiamata rivolta al cuore dell’uomo, al suo intimo. Se l’uomo accetterà l’invito del Maestro, cioè di liberarsi dalla concupiscenza del peccato, allora potrà risentire nel suo intimo l’eco di quel principio che lo chiama alla Verità, all’Amore, alla Libertà, alla spontaneità del cuore senza soffocare i suoi nobili desideri e le sue nobili aspirazioni. Potrà tornare a guardare l’altro nel suo pieno rispetto.




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Assunta Scialdone

Assunta Scialdone, sposa e madre, docente presso l’ISSR santi Apostoli Pietro e Paolo - area casertana - in Capua e di I.R.C nella scuola secondaria di Primo Grado. Dottore in Sacra Teologia in vita cristiana indirizzo spiritualità. Ha conseguito il Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Da anni impegnata nella pastorale familiare diocesana, serve lo Sposo servendo gli sposi.

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