Alla Scuola serve stabilità o cambiamento?

6 Ottobre 2021

insegnante

Spesso si sente dire che le cose vanno male perché gli insegnanti cambiano spesso. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Siamo certi che la fissità del docente sia funzionale alla formazione del ragazzo, che deve vivere in un mondo in cui regna il cambiamento e non la stabilità? Non sarebbe forse meglio proporre più varietà per garantirgli una maggiore elasticità mentale? 

“Oggi non viviamo un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento di epoca”. Fu il capo dell’istituzione considerata oggi all’unanimità la più conservatrice, la Chiesa Cattolica, a pronunciare questa frase in un discorso che ha segnato gli ultimi anni. Papa Francesco la incastonò, infatti, nel suo discorso, quasi programmatico, pronunciato a Firenze nel 2015, alla Chiesa italiana. Si tratta, tuttavia, di un giudizio evidentemente di respiro mondiale. E si tratta di un giudizio condivisibile dai più: non è necessario professare la fede del Papa per cogliere la verità di fondo contenuta in tale considerazione. 

Francesco ebbe il merito di mettere a tema un fatto che accade in maniera sotterranea. Lo psichiatra e psicoterapeuta Tonino Cantelmi, infatti, era già uscito, nel 2013, due anni prima, quindi, con un testo assai illuminante, dal titolo eloquente, “Tecnoliquidità”, nel quale, riassumendo, affermava che “ci troviamo ad assistere ad una rivoluzione” che ha portato alla diffusione di una nuova architettura del sapere e delle relazioni, caratterizzata da una struttura flessibile ed elastica. Tale trasformazione nasce all’interno di quell’humus culturale che Zygmunt Baumann ha rappresentato con l’immagine metaforica della liquidità. “All’interno del mondo liquido l’individuo post-moderno vive come immerso in un mare di relazioni, abilità e conoscenze in continua evoluzione, dalla validità temporanea, dall’approccio consumistico del take away o dell’usa e getta, che lo abituano, proprio come i liquidi, a mutare forma in base al contenitore che lo rende visibile e contiene, mentre lo rendono incapace di assumere impegni e forme d’identità credibili, stabili e solide”. Mi si perdoni la lunga citazione di Cantelmi che invito peraltro a rileggere con calma ed attenzione. 

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Sempre secondo Cantelmi, stiamo assistendo ad un passaggio che porta alla riorganizzazione delle strutture neuro-cognitive: l’uomo del terzo millennio avrà un nuovo modello di mente che porterà a trasformazioni di ordine antropologico. Un’ultima citazione tratta dall’introduzione: “L’uomo tecno-digitale si solleva sulle sue incerte gambe digitali, ci fa paura, lo osserviamo con diffidenza, eppure ne siamo terribilmente attratti… Siamo immersi in un paesaggio diverso, in cui le cose appaiono diverse e non sono più dove sembrano, mentre hanno smesso di sembrare ciò che sono (…) Ma in effetti, tra queste forme che si sviluppano intorno a noi, dei mille oggetti e particolari che possiamo cogliere con il nostro nuovo occhio digitale, quali esistono veramente? Le forme dotate di un corpo o chi sembra possedere una coscienza?”. Si aggiunga a tutto ciò l’impulso venuto dalla crisi sanitaria dalla quale, a fatica, usciamo in questi mesi. Siamo, in effetti, sulla linea di faglia tra un “prima” e un “poi”, non foss’altro perché il mondo, inteso come società globalizzata, sarà molto diverso da come lo abbiamo lasciato alla vigilia del coronavirus. Dalla cattedra questa trasformazione è meno nascosta e molto più evidente. I docenti, nei loro confronti quotidiani, sempre più spesso confidano che questa situazione in continua evoluzione li mette in difficoltà. Alcuni dichiarano la propria impreparazione di fronte a questo stato di cose. 

Le famiglie, nella loro maggioranza, non sembrano cogliere questo stato evolutivo. Spesso, parlando con genitori, mi sono trovato davanti ad affermazioni che iniziano con la tipica frase: “Quando io andavo a scuola…”: come se il mondo si dovesse cristallizzare ad un tempo ed una modalità fissa e valida per sempre. Non è così. Oggi più che mai. Le situazioni odierne sono molto diverse da quelle di un tempo, molto più dinamiche, sfidanti, innovative, dalla validità temporanea, per richiamare ancora Cantelmi. Ciò che ieri era valido non è detto che lo sia oggi e meno che mai domani. In questa situazione, il mestiere dell’insegnante è da reinventare quotidianamente e molti tra di essi scoprono che la cassetta degli attrezzi posseduta non sempre ha lo strumento adatto al bisogno. 

Occorre evidentemente uno sguardo nuovo e c’è bisogno di far cadere alcuni punti fermi che oggi sarebbero addirittura dei falsi miti. Uno di questi è sicuramente la continuità didattica, cioè il fatto che un alunno abbia bisogno di avere lo stesso insegnante in una materia per l’intero percorso di studi. È il sogno di ogni genitore, si tratta di un punto fermo di ogni istituzione. Per capirci meglio, quasi tutte le scuole hanno tra i criteri di assegnazione dei docenti alle classi il principio della continuità didattica. Per capirci, quando si deve assegnare un docente di storia ad una classe, si deve preferire quello dell’anno precedente. I genitori, dall’altra parte della cattedra, la invocano a gran voce. La conferma arriva in questi giorni da uno studio della Fondazione Agnelli che ha messo a tema la grave difficoltà che attraversa il segmento scolastico della Secondaria di Primo Grado: la scuola media, per capirci. Secondo l’associazione che ha condotto la ricerca, infatti, tale segmento scolastico avrebbe il demerito di sperperare il buon lavoro condotto dalla Primaria. Interessante, per il discorso che affrontiamo qui, è il tentativo di risalire alle cause. Citiamo: “La scuola media, inoltre, è anche il grado più soggetto alla giostra degli insegnanti: da un anno all’altro soltanto il 67% dei docenti rimane nella stessa scuola (83% nella primaria, 75% nelle superiori, dati dell’a.s. 17-18), con le prevedibili conseguenze negative per la qualità didattica”. Le cose vanno male, in soldoni, perché gli insegnanti cambiano spesso. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Siamo certi che la fissità del docente sia funzionale alla formazione di una coscienza, quella del ragazzo, che deve vivere in un mondo in cui regna il cambiamento e non la stabilità? Non sarebbe forse meglio proporre più varietà per garantirgli una maggiore elasticità mentale per meglio affrontare il variabile mondo che lo attende? 

Il problema può inoltre essere affrontato in una duplice direzione: quella che va dal docente all’alunno intesa come valutazione e quella che va dall’alunno verso il docente intesa come possibilità di vedere il mondo da punti di vista diversi. Quest’ultimo aspetto merita una particolare attenzione. Esiste una parabola di origine probabilmente indiana che racconta di alcuni ciechi che, avendo saputo dell’arrivo di uno strano animale, l’elefante, decidono di conoscerlo a modo loro, attraverso il tatto. La prima persona, la cui mano era caduta sulla proboscide, disse: “Questo essere è come un grosso serpente”. A un altro la cui mano raggiungeva l’orecchio invece sembrava un ventaglio. Quanto a colui la cui mano era sulla sua gamba pensò che l’elefante fosse un pilastro come un tronco d’albero. Il cieco che mise la mano su un fianco dell’animale disse che l’elefante era come un muro. Un altro che stava toccando la coda l’aveva descritta come una corda. L’ultima palpò la sua zanna, sostenendo che l’elefante è ciò che è duro, liscio e come una lancia. Chi aveva ragione? Tutti, ma nessuno completamente. Ecco il punto.

Secondo una lettura che ci interessa in questo momento, la morale della parabola è che gli esseri umani hanno la tendenza a rivendicare la verità assoluta sulla base delle loro esperienze limitate e soggettive, ignorando spesso il punto di vista delle altre persone che può essere altrettanto vero. Applicando questo racconto alla Scuola, dalla cattedra potremmo pensare che l’elefante rappresenti il mondo in trasformazione di cui abbiamo dato qualche cenno e che i diversi ciechi siano i diversi insegnanti. Si perdoni la banalità, ma se l’alunno avesse avuto per tutto il ciclo di insegnamento il cieco che tocca le zanne, uscirebbe dalla Scuola con la falsa idea che l’elefante sia liscio e duro come una lancia. È interessante notare un paio di cose nell’uso che facciamo di questo racconto.

L’idea corretta e completa dell’elefante sarebbe meglio approssimata dal lavoro congiunto e non solitario dei diversi ciechi che, in questo modo, arriverebbero tranquillamente a poter dire che l’elefante ha tutte le caratteristiche notate da ciascuno di essi. In questo caso, più ciechi, che toccano più parti diverse dell’elefante, approssimano meglio l’animale che vogliono conoscere. Il servizio offerto all’alunno sarebbe molto migliore. Senza voler entrare troppo in discorsi tecnici, la divisione in materie dell’orario delle medie persegue proprio questo obiettivo: le materie sono solo dei punti di vista sul mondo e non una quantità fissa di concetti da trasmettere. Il secondo punto, strettamente connesso col primo, riguarda la considerazione della cecità dell’insegnante. Quanti insegnanti si avvertono ciechi in qualche certa misura? Pur non ammettendolo esplicitamente. Nello studio della Fondazione Agnelli che prima abbiamo riportato in forma accennata, risulta che nella scuola media 8 docenti su 10 si sentono ben preparati nei contenuti disciplinari, mentre solo 4 su 10 si sentono adeguati nella didattica della propria materia e nella pratica d’aula. A sorpresa, però, soltanto l’11% pensa di avere bisogno di ulteriore formazione didattica. Sembra una contraddizione palese. Non sarebbe proponibile a questo punto, viste le condizioni al contorno, suddividersi il fardello da portare? 

Qualche anno fa, per affrontare il problema che, evidentemente non è nuovo, si proponevano le classi aperte. Il Covid ha un po’ fermato questa riflessione per motivi legati al tracciamento ed al contagio. E dall’altra parte della cattedra, le famiglie sarebbero davvero così contrarie alla variazione degli insegnanti, se spiegassimo loro la validità di tale operazione? Se il vantaggio sarebbe un figlio più aperto alle novità e maggiormente elastico e, dunque, più pronto ad affrontare il mondo, sarebbero davvero così chiuse a tale possibilità? Probabilmente comprenderebbero più facilmente che la richiesta della continuità didattica, così come loro la intendono, sarebbe anacronistica e addirittura controproducente. L’altra domanda, che lascio ai colleghi, è rivolta a questa parte della cattedra: siamo ancora convinti in maniera monolitica che la continuità didattica dello stesso insegnante sia un valore da perseguire? Tale questione investe innanzitutto i vertici pensanti della Scuola italiana. Fatti salvi i primi anni di infanzia e primaria, forse è arrivato il tempo di dedicarci un po’ di tempo.




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Piero Del Bene

Sposo, padre, insegnante di matematica e scienze nella scuola secondaria di primo grado. Catechista e formatore. Dopo la laurea in Matematica ha conseguito il Master in scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Con la moglie Assunta si occupano di Pastorale Familiare.

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