Io insegnante, straniero nella propria patria

12 Gennaio 2022

occhiali

Sulla carta, la Scuola è ancora luogo di costruzione. Nei fatti però, questa funzione viene sempre meno perseguita con vigore. Siamo proprio sicuri che nelle nostre scuole effettivamente si stia costruendo il miglior mondo possibile? Siamo sicuri che la nostra Scuola sia sentita come luogo in cui mandare i nostri figli perché diventino uomini migliori?

Questa riflessione si situa tutta al di qua della cattedra. O quasi. È, per così dire, il mondo visto dal mio lato della cattedra. Durante la pausa natalizia, meditando sul lungo anno che abbiamo messo alle nostre spalle, valutando e rivalutando le motivazioni personali per svolgere al meglio il proprio lavoro, mi sono soffermato un poco a riflettere sul perché delle cose, sulle ragioni del mio essere insegnante. In particolare su quanto di noi stessi venga posto in gioco nel duro lavoro dell’insegnare e su come tutto ciò sia così spesso poco considerato. Chi non è interessato può tranquillamente fermarsi qui con la lettura. Gli altri abbiano un poco di pazienza. 

Negli ultimi anni vado riflettendo sul fatto che l’essere insegnante ha più a che fare con la spiritualità che col mondo del lavoro. Attiene molto di più a ciò che si è piuttosto che a ciò che si fa o, meno ancora, a cosa si guadagna. Essere insegnate oggi non può essere solo un lavoro, non può essere ridotto solo ad una questione di riconoscimento economico. Nei fatti non lo è. Soprattutto in Italia. A titolo di esempio, nell’ultimo anno, un professionista impegnato pienamente nella Scuola in mansioni aggiuntive al suo lavoro, un collaboratore del Dirigente, per esempio, a fronte di circa un migliaio di ore di lavoro si è visto premiare con duemila euro lordi: non può essere una questione economica a convincerlo a continuare a svolgere le sue mansioni, evidentemente. E se spiritualità deve essere, allora, mi sono chiesto su cosa fondare tale spiritualità, come alimentarla, senza la pretesa, ovviamente, di un trattato. Anche e soprattutto in una Scuola che sempre di più confonde il proprio laicismo (la volontà di lasciare fuori ogni riferimento religioso) con la laicità che, invece, è la capacità di lasciare a tutti la possibilità di esprimere a pieno il proprio essere anche religioso. “I miei venticinque lettori” sanno che scrivo e mi sforzo di vivere da cristiano cattolico perché Cristo mi ha fornito, da un certo punto in poi della mia vita, un motivo valido e vero per spenderla pienamente senza rimorsi né rimpianti. Cattolico perché, nonostante le tante manifestazioni della propria pochezza, o forse proprio per esse, la Chiesa cattolica mi ha comunque indicato il Cristo quale via di pienezza. Porto gratitudine per quest’opera. In questa situazione, con questo stato d’animo, appesantito da tanti episodi capitati, sentendo il bisogno di tornare all’origine del mio essere insegnante, mi sono chiesto quale episodio biblico potesse ispirare la mia spiritualità da docente. Me ne sono venuti in mente due.

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Traggo il primo dal Salmo 136. Serve ad offrire uno squarcio di realtà che vedo: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: «Cantateci i canti di Sion!». Come cantare i canti del Signore in terra straniera?”. Come si può facilmente intuire, le immagini dei primi versi esprimono la prostrazione morale degli ebrei deportati, esiliati. Seduti in riva al fiume, piangono. Sion, la loro patria, è, nel racconto, ormai per loro soltanto un ricordo assillante e lancinante. Gli strumenti musicali sono appesi, inerti, ai salici circostanti. Al di là del riferimento alla fede, questo brano è diventato, facilmente, metafora di chiunque non si senta al proprio posto. Verdi ne ha tratto spunto per la famosissima aria “Va pensiero” del Nabucco, facendone un riferimento all’Italia sottomessa agli stranieri. Salvatore Quasimodo, analogamente, attinge a piene mani al salmo per tratteggiare la situazione dell’Italia negli anni della Seconda guerra mondiale: “Come potevamo cantare le nostre canzoni in terra straniera. E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo. Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.” Stride l’appendere le cetre, strumenti di gioia, alle fronde dei salici, tradizionalmente associati al dolore. Ecco il punto: comincio a sentirmi straniero in una “terra”, la Scuola, che fino a qualche tempo fa sentivo casa, patria, luogo di costruzione. Qui sta il nocciolo. 

Sulla carta, la Scuola è ancora luogo di costruzione. Nei fatti però, questa funzione viene sempre meno perseguita con vigore. Siamo proprio sicuri che nelle nostre scuole effettivamente si stia costruendo il miglior mondo possibile? Siamo sicuri che la nostra Scuola sia sentita come luogo in cui mandare i nostri figli perché diventino uomini migliori? Remiamo tutti dalla stessa parte? Quale considerazione dell’azione della Scuola ha la nostra società? Ci chiede di “cantare le nostre canzoni” cioè di insegnare al meglio, ma coloro che ce lo chiedono vogliono sentire veramente? Mi sento straniero nella mia scuola anche da quando essa, da qualche anno, nel nome di una non meglio identificata integrazione, invece di aprirsi a tutti, ha cominciato a chiudersi a qualcuno. Cosa pensare, per esempio, delle rappresentazioni natalizie senza il riferimento cristiano (tra l’altro comune anche ai musulmani) messe in scena per non offendere le sensibilità delle altre confessioni? Siamo sicuri che sia integrazione? Questo nascondere parte della realtà per non offendere mi rende straniero in questa terra della non verità nella quale, lentamente, ma inesorabilmente, vengo deportato. E in questa terra mi viene chiesto di cantare le mie canzoni. Non mi piace cantare il distaccamento dalla realtà. Non è la mia canzone. Non è ciò che credo faccia bene. Penso che a scuola, il Natale debba essere il Natale per un fatto di verità oggettiva, per una questione di sguardi sulla realtà. Non mi arrendo al fatto che la Scuola diventi luogo di mistificazioni da parte di soggetti esterni che intendono colonizzare il pensiero comune per portarlo alle proprie convenienze e convinzioni.

Mi ha sorpreso, in questa mia riflessione, un riferimento capitatomi due volte, negli ultimi quindici giorni, da ambiti completamente diversi: l’accendersi di una cometa nel cielo. Il riferimento va al secondo episodio biblico che mi accompagna nel mio essere insegnante, il racconto dell’arrivo dei magi presso la grotta di Betlemme, ma anche alla cometa che sta per abbattersi sulla terra, spunto drammatico iniziale del film Don’t look up uscito in Italia, ironia della sorte, proprio la vigilia di Natale. Cosa pensereste se affermassi che un insegnante, in fondo, è uno di quei misteriosi sapienti che il Vangelo ci racconta mettersi in moto al comparire di una stella nel cielo d’oriente? La tradizione vede in essi dei cercatori di Verità, degli uomini inquieti, non soddisfatti della realtà che vivono. Studiosi che scrutano il cielo, le stelle, dalle quali de-siderano una risposta più appagante al loro cercare sulla terra. Lo sguardo orizzontale a loro non basta: devono spaziare in tutte le direzioni. La loro fame e sete di conoscenza non è soddisfatta da ciò che conoscono della terra. Un insegnante, penso, è prima di tutto un cercatore, uno studente, cioè uno studioso, uno che non ha smesso di rovistare nella natura per cogliere il senso profondo della propria curiosità che, per il solo fatto di esistere, lo sollecita in maniera incontrollabile. Mentre studia (cioè mentre ama, studium in latino, infatti, rimanda proprio all’amore, alla passione, allo zelo, al piacere) gli capita di testimoniare tale tensione che lo divora. Il piacere che prova attira (dovrebbe attirare) gli studenti: altrimenti è vano ogni suo tentativo. Ed infatti quanti colleghi vivono il loro essere insegnante come ripiego esistenziale che finisce con l’essere totalmente infecondo! L’attività di ricerca, come le scoperte fatte, cambiano il cercatore: l’incontro con una Verità reindirizza i passi della propria esistenza. “Per un’altra strada fecero ritorno al proprio paese” leggiamo nel racconto evangelico. La conoscenza (di ogni genere) cambia le esistenze. Genera nuove rotte, nuovi orizzonti, nuove mete. Salva la vita, in senso metaforico ma anche letterale. Gli astronomi che nel film citato scoprono la cometa che sta per impattare in maniera distruttiva la terra, corrono ad avvisare l’umanità. Questa però non comprende. È tutta presa nei propri giochi. Al punto tale da negare l’evidenza della cometa. Da qui nasce l’invito a non guardare in alto (don’t look up) che dal potere costituito viene lanciato. I due protagonisti si ritrovano in terra straniera a cantare la loro canzone, la scoperta che hanno fatto, non essendo compresi. Essendo anzi derisi e sfruttati per interessi economici di basso cabotaggio. Quale può essere allora la cosa più rivoluzionaria che si possa fare? “Just look Up”, viene proclamato nel film. Guardate in alto. Guardate al Cielo. Lì scopriremo la realtà. Non dico di più sul film che invito a vedere. Invece qualcosa in più va detta a coloro che, come me, da insegnanti cristiani, si sentono esclusi da questo mondo sempre più orizzontale che sta diventando la Scuola. E dire che di docenti cattolici nelle scuole ce ne sono molti! Una volta erano significativamente riuniti nell’Associazione italiana maestri cattolici (AIMC), che riunisce “docenti, dirigenti ed ispettori della scuola dell’infanzia e di base”. Fondata tra gli altri da fratel Carlo Carretto. L’Associazione esiste ancora, ma gli insegnanti uniti dalla loro fede comune sono più sparpagliati nel mondo della scuola. Ognuno lavora più in disparte, in maniera più sotterranea, anche perché la loro cittadinanza nella scuola è sempre più sconfessata. Essi sanno, tuttavia, che spesso la Scuola si regge grazie alla loro abnegazione che non è dovuta (e meno che mai ripagata) alla retribuzione economica. Questi docenti vivono la loro ricerca del cielo e della Verità nella quotidianità della loro attività di costruzione. Non sono parecchi quelli che se ne accorgono, ma va rimarcato che, se la Scuola nel caos che viviamo resta ancora in piedi, ciò è dovuto al lavoro silenzioso e diversamente retribuito (dal Cristo) di queste persone. La Scuola si muove non grazie ai soldi, ma anche grazie alla dedizione di tanti che sono mossi proprio da quel Bambino che la cometa dei magi ci spinge a cercare. Mai come in questo caso è il caso di guardare in alto, come viene proclamato nel film. Non vedremo queste cose esplicitamente. Nei video augurali delle scuole abbondano i babbo natale (simbolo consumistico contrario allo spirito del Natale, per esempio) e scarseggiano le meravigliose natività, patrimonio dell’Umanità e rimando colto e bello all’essenza della vita. Ecco, cosa è secondo me un insegnante: uno che, mentre tutti congiurano invitando a guardare in basso, il proprio ventre (terribile, agghiacciante e memorabile una delle ultime scene del film), si gira verso l’alto e così facendo invita gli altri: “Ora è il momento! Guardate in alto!”. Liberamente. Per attrazione.




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Piero Del Bene

Sposo, padre, insegnante di matematica e scienze nella scuola secondaria di primo grado. Catechista e formatore. Dopo la laurea in Matematica ha conseguito il Master in scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Con la moglie Assunta si occupano di Pastorale Familiare.

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