Sindrome post-aborto, non un’idea astratta ma una certezza scientifica

2 Febbraio 2022

tristezza

Cosa succede alla donna dopo l’aborto? Ricerche già datate (Asthon, 1980) svolte sulle donne che si sono sottoposte al IVG avevano riscontrato che il 44% di queste ultime presentava disturbi psicologici, il 36% disturbi del sonno e il 31% si era pentita e l’11% si era fatta prescrivere psicofarmaci del proprio medico di famiglia. Come mai nessuno ne parla?

Agire come operatori del servizio sanitario, come volontari dei centri di aiuto alla vita, dei consultori, dei centri di prevenzione della violenza sulle donne, o più semplicemente interfacciarsi con amiche o conoscenti che stanno valutando se prendere la decisione dell’aborto o hanno già intrapreso questo percorso, è un compito estremamente delicato. A volte, si rischia di essere guidati da pregiudizi, moralismi, idee lontane dalla realtà, o che incasellano la persona in categorie rigide senza tener conto della personalità, delle variabili individuali, della complessità di un sistema di vita multiforme. Cerchiamo allora, di ancorare il nostro agire a dati oggettivi, norme e statistiche, e alle ricerche scientifiche che ci forniscono una panoramica solida per approfondire questo scenario.

L’aborto, o Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG), è consentito e regolamentato in Italia dalla legge n. 194 approvata nel 1978. All’articolo 4 si definisce: “Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975, n. 405, o a una struttura sociosanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia”.

Si stabiliscono pertanto le condizioni che possono portare una donna a intraprendere una simile strada, motivi di salute, economici, sociali o familiari, e i tempi entro i quali è possibile ricorrere ad un simile processo, nei primi 90 giorni di gestazione (12 settimane e 6 giorni). Inoltre, si specifica che l’IVG è consentita solo se la gravidanza o il parto comportano un grave pericolo per la vita della donna, o quando sono accertati processi patologici (rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro) che possano determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Si definisce, infine, l’esistenza di strutture sociosanitarie abilitate che possano permettere procedure nel rispetto delle norme sanitarie, contesti tutelanti della salute delle donne che in passato non veniva in alcun modo protetta.

Non vogliamo qui approfondire le ragioni storico-sociali che hanno portato all’approvazione di una simile legge, seppur estremamente interessanti. Ma possiamo notare come ci si trovi di fronte ad una normativa ormai giunta quasi a cinquanta anni dall’approvazione, che andrebbe probabilmente revisionata o addirittura sostituita. Tuttavia, in questo spazio desideriamo piuttosto riflettere sugli aspetti post-aborto. Di seguito esploreremo, quindi, le dimensioni psicologiche e sociali del post-aborto al fine di aprire una riflessione a più ampio spettro sulle possibili conseguenze e su questo fenomeno in generale.

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Dal punto di vista medico, oggi l’aborto è una procedura decisamente più sicura del passato. Chiaramente, come tutti gli interventi, possono presentarsi delle complicazioni fisiche (si rimanda a vari articoli divulgativi presenti anche nel web). È importante considerare però che la persona è una unità intrinseca di mente e corpo. Pertanto, ritengo utile aggiungere un focus sulla psiche: in letteratura si evincono infatti dei dati al riguardo.

Da non sottovalutare anche le possibili complicazioni psicologiche che un aborto – seppur terapeutico – può causare nella donna. Non è raro che essa sviluppi sensazioni e sentimenti estremamente negativi: sensi di colpa, frustrazione, senso di inadeguatezza e di incapacità nel proseguire la gravidanza, in particolare, quando questa è stata fortemente desiderata. In simili condizioni, il passo verso l’insorgenza di veri e propri disturbi psichiatrici (Coleman, 2006) è possibile. Ricerche già datate (Asthon, 1980) svolte sulle donne che si sono sottoposte al IVG avevano riscontrato che il 44% di queste ultime presentava disturbi psicologici, il 36% disturbi del sonno e il 31% si era pentita e l’11% si era fatta prescrivere psicofarmaci del proprio medico di famiglia. 

C’è da considerare anche l’impatto delle diverse tipologie di metodi che portano all’aborto volontario. Nel caso della pillola RU486 si registra la possibilità di sviluppare disturbi psichici peggiori. In quanto, in tale situazione, le donne vedono l’embrione abortito. In uno studio pubblicato sul British Journal of obstetrics and Gyneacology (Soderberg, Janzon &Sjoberg 1998) il 56% delle donne dichiararono di aver riconosciuto l’embrione e il 18% denuncia come conseguenza, incubi, flashback e pensieri ricorrenti. 

Inoltre, già anni fa la sindrome clinica legata al post-aborto è stata introdotta nel DSM III dall’APA, nell’ambito del cosiddetto PTSD. Alcuni studi hanno trovato, infatti, una significativa correlazione tra l’esperienza dell’aborto e la sindrome post traumatica da stress. Rue e.a., 2004 hanno somministrato il questionario IPLQ (Institute for Pregnancy Loss Questionnaire) su un campione di 217 donne americane che hanno abortito una o più volte. Dall’analisi dei dati emerge che il 65% del campione rivive in modo persistente l’evento attraverso ricordi ricorrenti e intrusivi e flashback; il 36% del campione presenta l’evitamento persistente degli stimoli associati all’aborto, 46% l’incapacità di ricordare aspetti importanti dell’evento ed infine il 17% presenta sintomi persistenti di aumentato arousal, collera e irritabilità. Pertanto, si fa riferimento alla tipica sintomatologia da PTSD: aumento della reattività fisiologica (caratterizzata da ipervigilanza, aumento dell’irritabilità, disturbi del sonno, della memoria, della concentrazione). Si registrano intrusioni di ricordi che si configurano come un continuo rivivere l’evento nel quotidiano impedendo la ripresa della quotidianità. Si manifesta anedonia (la persona perde qualsiasi interesse per tutto ciò che un tempo era fonte di piacere) e difficoltà nelle relazioni intime. A volte, si può configurare il fenomeno della dissociazione: la donna riferisce di osservare l’evento da spettatrice, riducendo quindi il dolore e lo stress. Ciò che succede viene quindi registrato sul piano della coscienza, ma la persona riferisce di avere la sensazione di uscire dal proprio corpo e di osservare ciò che succede da lontano. 

Clinicamente rilevante è anche lo spettro depressivo. Uno studio di Fergusson del 2006 evidenzia come le donne che hanno abortito presentano un maggiore rischio di depressione: umore triste, insonnia, difficoltà di concentrazione, disturbi sessuali e problemi relazionali con il partner, ideazione suicidaria, episodi di pianto improvviso incontrollato, perdita della stima di sé, perdita dell’appetito e perdita della motivazione. Anche per le donne che successivamente hanno altri figli, è stata riscontrata una certa ambivalenza di sentimenti che necessitano di essere gestiti e riordinati, in modo che il bambino venuto alla luce in seguito non subisca a sua volta proiezione materne negative.

Chiaramente, nelle situazioni cliniche compromesse come quelle appena evidenziate è necessario il ricorso ad un professionista esperto. A tal proposito in letteratura si conferma l’efficacia di percorsi psicoterapici, come quelli basati sull’EMDR. Il dolore è l’assenza percepita come vuoto assoluto può essere colmata da una elaborazione, dalla possibilità di trasformare la nostalgia in modo costruttivo per sé e per gli altri.

Più in generale, l’appoggio, la comprensione e il sostegno del partner, della famiglia, della rete sociale intorno e dello stesso personale sanitario risulta essere fondamentale quando una donna deve o vuole sottoporsi ad un aborto terapeutico. Sarebbe estremamente utile che il personale sanitario prevedesse una consulenza di risk assessment (valutazione di rischio), durante la fase preliminare della decisione abortiva, così da poter intercettare eventuali fattori di rischio nello sviluppo di sintomi psichiatrici post aborto. Inoltre, andrebbe prevista per legge l’assistenza alla donna che in seguito ad un aborto abbia conseguenze negative sulla sua salute psichica. Sul territorio nazionale esistono realtà di supporto, come i Centri di aiuto alla vita, che utilizzano ad esempio il “metodo centrato sul bambino” (Benedetta Foà, CAV Mangiagalli): un percorso di 8 incontri di cura che permette l’avvio verso l’elaborazione della perdita, usato per aborti spontanei procurati o terapeutici.

Abbiamo su delineato i possibili risvolti per la donna, ritengo utile porre attenzione però anche al partner. Anche il padre in attesa si trova a vivere cambiamenti che non riguardano solo l’ambito sociale, essere padre, ma anche quello intrapsichico, sentirsi padre. Il sentirsi padre si riferisce alla percezione emotiva della paternità e alla facoltà di costruirsi un’immagine di sé come padre del nuovo essere (Del Lungo, Pontalti, 1986). Si tratta dunque di un processo evolutivo impegnativo; tuttavia più lento rispetto a quello materno, perché privo del contatto viscerale diretto (Vegetti Finzi, 1992). Usando le parole di Soldera (2000) potremmo affermare che la mamma futura custodisce il bimbo che nascerà nel suo grembo e il padre lo fa nella mente e nel cuore. Per quanto riguarda l’uomo le conseguenze dell’aborto incombono sul suo senso di responsabilità (Cantelmi, Cacace, Pittino, 2011). Potrebbe diventare irresponsabile: l’atto sessuale non è più legato all’amore e al desiderio di procreare ma solo al godimento fino a se stesso. Potrebbe esserci un inconsapevole ritiro sessuale, con la rinuncia sistematica dei rapporti anche con la moglie. Nei casi di uomini che poi diventano padri, si è notato un minore sostegno ai figli e la mancanza di collaborazione nella loro crescita.

Infine, per quello che riguarda la paternità desideriamo porre attenzione ad un aspetto molto spesso trascurato. Preservare il diritto di autodeterminazione della donna, non può significare in alcun modo, annullare il diritto alla paternità dell’uomo. Rispettare l’uno, non può escludere l’altro. Proteggere e liberare la donna dai condizionamenti di un partner che potrebbe imporre l’aborto (situazione effettivamente di frequente avvenuta), potrebbe porre in essere di fatto un trattamento discriminatorio nei confronti del padre. Egli potrebbe non essere informato non solo delle intenzioni abortive, ma neppure dell’esistenza del figlio, o di eventuali patologie della partner così da non poter svolgere, pur volendo, un’azione di sostegno e conforto della madre (Brancalenti, Alunni Carozza&Di Rienzo, 1996). Alla luce di quanto delineato, sarebbe estremamente funzionale il coinvolgimento almeno nella fase informativa, oltreché la presa in carico da parte del sistema sanitario, anche della figura paterna a prevenzione della salute psichica dell’uomo.

La legge istituisce degli interlocutori privilegiati a servizio di chi sta valutando una simile scelta: i consultori familiari. In particolare, si dispone i seguenti compiti a simili strutture disposte su tutto il territorio nazionale: “I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza: a) informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio; b) informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante; c) attuando direttamente o proponendo all’ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a); d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”.

Dunque, si prevede una presa in carico che parte dell’individuazione delle criticità che spingono la donna a ricorrere all’IVG e alla messa al corrente di tutti i suoi diritti. Tale cura può andare a contenere le preoccupazioni e le ansie della donna. Bradshaw (2003) ha esaminato il livello di stress psicologico presente immediatamente prima dell’aborto e ha riscontrato che tra il 40 e 45 % delle donne manifesta un elevato livello d’ansia. Ulteriori dati riscontrano che (Bradshaw &Spade, 2003) un mese dopo IVG più del 30% delle donne manifesta livelli di ansia clinicamente significativi o elevati livelli di stress. È, anche, di questa ansia che bisogna farsi carico.

Un appunto particolare va riservato alla IVG nelle minorenni. La cultura romantica a tratti ha portato ad una banalizzazione dell’amore e della sessualità. L’iper-sessualizzazione mediatica spinge le giovani generazioni ad anticipare i rapporti sessuali. Una carente educazione affettiva e sessuale ha ridotto la sessualità a genitalità e l’educazione a mera prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse. Tutto questo influenza fortemente l’accostarsi delle giovanissime all’aborto. Le adolescenti italiane che hanno fatto ricorso al IVG erano il 2,6% nel 1999, il 3,6% nel 2008 e il 2,6% nel 2019 (www.ministerodellasalute.it, relazione annuale legge 194/78).

Provo a raccontare il fenomeno nelle giovanissime attraverso gli occhi di Arianna diciottenne che mi racconta di aver accompagnato una sua amica ad abortire. “In consultorio, ci hanno detto di andare a fare una ecografia. Non avevamo soldi, siamo state in ospedale, non potevamo dire che era per abortire… È stato terribile. Non hanno tolto il volume, durante l’ecografia abbiamo sentito il battito del cuore del bambino. Era vero, c’era veramente. Non dimenticherò mai quel suono. Poi, siamo andate ad abortire, nessuno ci ha detto cosa poteva succedere. La mia amica era giustamente molto tesa. C’erano in sala d’attesa altre ragazze, una più piccola di noi ci guarda e ci dice: non ti preoccupare, non è niente io l’ho già fatto”. Veronica mi racconta, invece, di quando è andata in consultorio e ha chiesto la pillola del giorno dopo, ha ricevuto la prescrizione senza alcuna domanda, senza indicazioni, senza attenzione alla persona e alla sua situazione specifica. 

Le interruzioni di gravidanza e le prescrizioni mediche non dovrebbero mai essere effettuate con leggerezza. La presa in carico del paziente passa per un’attenta osservazione della persona che abbiamo di fronte. Il concetto stesso di consenso informato, in medicina come in psicologia, si riferisce ad una adesione pienamente consapevole libera e informata di ciò che si sta per fare. Ritengo allora doveroso porre attenzione a informare adeguatamente e a educare a prendere decisioni consapevoli ed informate. Tutto questo ha ancora più peso, se riguarda minori e giovanissime, rappresentanti del futuro della nostra società. Pertanto, sarebbe utile avviare, come prescritto dalla legge, procedure di attenta informazione e supporto, anche nei casi di giovanissime, così da rendere maggiormente consapevole la donna che sta decidendo riguardo a tutte le possibili conseguenze del suo atto. 

Arriviamo dunque a concludere che l’IVG non è da considerarsi in alcun caso un evento banale. Pertanto, va avviato un processo di seria presa in carico di tutte le figure coinvolte. Si deve prevedere un’attività di prevenzione dallo sviluppo di disagio fisico e psichico a seguito dell’ IVG, sia da parte della mamma che del papà. È necessario, inoltre, monitorare l’elaborazione della perdita in un arco di tempo successivo all’aborto. Infine, ma non per importanza, sarebbe funzionale favorire lo sviluppo di coscienze attente e consapevoli nelle nuove generazioni, rispetto alla propria sessualità ed affettività. Il danno psicologico, come quello fisico, risente in particolare del beneficio di azioni di prevenzione e valorizzazione dei fattori protettivi. Se le istituzioni e tutti gli agenti educativi lavorassero alla diffusione di una completa e armonica educazione affettivo- sessuale, sarebbe possibile prevenire il disagio e ridurre la sua massiccia estensione sulla popolazione.




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