Avere cura, coltivare, coltivarsi: il difficile ed affascinante lavoro dell’educatore

23 Aprile 2022

Come si cura spiritualmente un docente? Bastano una ventina di ore di corso di aggiornamento all’anno? E come si coltiva o si concima un genitore? Chi si prende cura di lui, affinché possa avere la forza e le capacità di “zappare” intorno al figlio? Quanti genitori non nutrono più la speranza che anche essi stessi possano portare frutto! Tutto questo si può insegnare?

C’è una parabola, nel Vangelo di Luca, cosiddetta “dell’albero infruttuoso”, che ha molto da dire e da dare a chi come me continua a vedere il mondo dalla cattedra. Chi la vuole approfondire la può trovare al capitolo 13. Ha per protagonista un uomo, un proprietario, che ha piantato, in una vigna, un albero di fichi e torna per raccogliere i suoi frutti. Il problema è che non ne trova. È interessante notare come, pur essendoci altri alberi nella vigna, quell’uomo si intestardisca proprio con quel fico sterile. È così ottimista, quell’uomo, da sperare frutti anche dall’albero infruttuoso. 

Fuor di metafora, venendo ad uno dei focus di questo articolo, direi che se un docente o un genitore, ancorché non proprietario, non fosse mosso da una simile speranza nei confronti di un ragazzo che sta curando, potrebbe abbandonare l’impresa già sul nascere. La situazione dell’albero si presenta grave: “Sono 3 anni che cerco frutti e non ne trovo”, dice il padrone. Quell’uomo, tuttavia, spera che quell’albero sia capace di portare frutti. Sa che ne è capace. Non è disposto, tuttavia, ad aspettare all’infinito. “Taglialo, dunque!”, comanda il padrone della vigna all’agricoltore. Si tratta di una sentenza. A quanti docenti stanno fischiando le orecchie ripensando alle volte in cui si sono arresi di fronte all’incapacità di un alunno di portare i frutti sperati? Un albero che non porta frutto è, evidentemente, inutile. Si tratta di un fatto oggettivo, che va contro ogni tentativo di autogiustificazione. 

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La parabola, però, ci fornisce anche l’immagine del contadino che intercede per l’albero: “Padrone lascialo ancora per questo anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime”. Non potrebbe, questo agricoltore, essere l’immagine di quei docenti che lavorano instancabilmente nel giardino della gioventù troppo frettolosamente dichiarata infruttuosa? Immagino la sottile, amara, sottolineatura: “Esistono davvero?”. Voglio credere che esistano docenti che lavorano per dare ad ogni giovane almeno la possibilità di portare frutto. Ne ho incontrati. E sono anche meno rari di quanto si possa pensare. L’agricoltore ci mette l’impegno proprio, personale. Questo me lo rende simpatico. Potrebbe lamentarsi della società, del misero guadagno o d’altro. Invece, dalla parabola, si evince come sia egli stesso ad impegnarsi a concimare, a zappare, a fare tutto il possibile. Non credo sia necessario ricordare che egli non ha la certezza del risultato. Verrà, infatti, il momento di tirare le somme, ma primariamente c’è da lavorare per porre le fondamenta per far fruttificare l’albero.

Alcune considerazioni si impongono. Questi alberi sono primariamente i nostri giovani, ma anche l’agricoltore è albero intorno al quale qualcuno deve zappare e concimare. Anche gli adulti vanno coltivati. Non è vero che ci si debba preoccupare solo dei ragazzi. Si apre qui il vastissimo orizzonte dell’auto coltivazione del docente, della formazione permanente. Non solo culturale. Come si cura spiritualmente un docente? Bastano una ventina di ore di corso di aggiornamento all’anno? E come si coltiva o si concima un genitore? Chi si prende cura di Lui, affinché possa avere la forza e le capacità di “zappare” intorno al figlio? Quanti genitori non nutrono più la speranza che anche essi stessi possano portare frutto! Si tratta di un fatto grave. Non mi sembra di vedere, intorno a me, tuttavia, persone che coltivino la propria interiorità con concime e zappe adeguate. Probabilmente non ne avvertiamo nemmeno la necessità. Sbagliando. Un’altra considerazione potrebbe essere la seguente: uscendo dal racconto, in cosa può consistere lo zappare dell’agricoltore ed il suo concimare? Non si tratta di una domanda di poco conto. Così come credo che sia fondamentale chiedersi in cosa consistono i frutti che i nostri giovani devono portare. Cosa ci aspettiamo che “producano”? La risposta a questa domanda non sempre è concorde. Non di rado, la scuola insegue alcuni obiettivi, le famiglie altri, lo Stato altri ancora. Non poche incomprensioni nascono da questo malinteso di fondo. 

Sarebbe troppo generico chiedersi, banalmente, a cosa serva la Scuola. È in corso, tuttavia, una riflessione articolata su questo tema. A più livelli. Si parla di competenze da valutare nei nostri studenti. La prendo alla larga con un ricordo. Una collega ed amica alcuni anni fa mi parlava di un suo alunno che aveva dei voti meravigliosi nelle discipline scolastiche ma… non sapeva allacciarsi le scarpe. I ricercatori oggi mettono in luce una forte contestualizzazione delle abilità cognitive. Si chiedono per esempio se saper risolvere un problema in un dato ambito scolastico voglia dire che si è in grado di risolvere problemi in altri ambiti. Traduzione per i non addetti al lavoro: se un ragazzo “va bene” a scuola, ciò vuol dire che sappia anche vivere? Vuol dire che sa affrontare le diverse difficoltà della vita? Per rispondere a queste questioni, oggi si parla di soft skills, competenze assolutamente necessarie nel mondo del lavoro e in società. Si tratta di saper collaborare, comunicare, mantenere le decisioni, contribuire a prendere decisioni condivise e poi mantenerle. Come si intuisce, si tratta di competenze relazionali fondamentali, soprattutto nella società odierna deturpata dall’individualismo e funestata dall’emergenza sanitaria. Riporto questi esempi recenti, ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 1992 ricordava che “con il termine skills for life si intendono tutte quelle skills (abilità, competenze) che è necessario apprendere per mettersi in relazione con gli altri e per affrontare i problemi, le pressioni, gli stress della vita quotidiana. La mancanza di tali skills socio emotive, può causare in particolare nei giovani, l’instaurarsi di comportamenti negativi e a rischio in risposta agli stress”. Coloro che studiano queste cose, di solito, le collegano anche alle caratteristiche della famiglia di provenienza, della scuola e del contesto sociale ed economico nel quale le persone vivono. 

Cosa andiamo a cercare quando parliamo di queste competenze? I cinque tratti che solitamente vengono individuati riguardano l’apertura mentale, l’amicalità, la coscienziosità, l’estroversione e la stabilità emotiva. Di solito, siamo soliti considerare quasi tutti questi aspetti come espressione di caratteristiche personali, innate, peculiari. Ma è proprio così? E, soprattutto, si possono insegnare a scuola? Paradossalmente, gli insegnanti, alcune volte, le valutano anche nell’ambito di quel tratto fondamentale che viene inglobato nel comportamento. Tuttavia per queste competenze non ci si può limitare a riconoscerne la presenza o assenza, ma vanno valutate solo se si è svolta una specifica azione professionale: c’è infatti un’etica della valutazione da rispettare per cui a scuola si può valutare solo ciò per il quale è stato previsto un intervento e non altro. A scuola non valutiamo le persone. Ci possiamo limitare a valutare solo ciò che si è proposto loro e come questa proposta abbia fruttificato. Alla base di questa idea c’è la considerazione che la sola trasmissione di contenuti a scuola non sia sufficiente per l’inserimento nella vita professionale e per l’esercizio pieno dei diritti di cittadinanza. Come ha scritto Anna Maria Ajello: “Non sapersi relazionare agli altri, non essere in grado di assumere il loro punto di vista, non cogliere le emozioni proprie e altrui, per far solo alcuni esempi, non ci mette in grado di vivere in modo sufficientemente buono la vita quotidiana. Ma in questa constatazione rientrano competenze molto diverse che vanno dalla capacità di risolvere problemi, di assumere iniziative, di rispondere in modo flessibile a diverse situazioni, oltre alla capacità di collaborare, di mantenere gli impegni, di organizzare il lavoro e così via”. In altre parole, bisogna andare verso la rilevanza emotiva e sociale della realtà. La domanda fondamentale che ci si pone, anche a partire dalla parabola evangelica, è la seguente: tutte queste cose si possono imparare? Se sì, si possono insegnare? Il contadino della parabola, come alcuni docenti (non tutti, purtroppo) pensano che si possa agire e fare qualche cosa di opportuno. Pensano che non tutto sia cristallizzato. Pensano che uno nato tondo, possa morire quadrato, per parafrasare un detto tradotto dal dialettale. Non lo può fare solo la scuola, però. Non è mai troppo ovvio ricordarlo. Sono molti gli aspetti che entrano in gioco: i contesti di vita, i comportamenti delle figure di riferimento, siano essi docenti o adulti posti in posizione gerarchica, le relazioni tra pari e le attese che le identità suscitano ed esplicitano. L’alleanza tra la scuola, le famiglie e le altre agenzie educative, tra le quali anche strutture come le parrocchie, i circoli e le altre associazioni che raccolgono ragazzi, risulta evidentemente fondamentale. 
Si tratta di una collaborazione resa molto più difficile dall’odierna diffidenza reciproca che famiglie e scuola nutrono nei rispettivi confronti. È un vulnus gravissimo dal quale, prima o poi, bisognerà pure guarire, se si vuole ottenere qualcosa di positivo. Dal punto di vista della scuola, in particolare, “si dovrebbe scegliere tra le diverse competenze di questo tipo quali possono essere quelle più facilmente promuovibili, per esempio saper lavorare in gruppo, mantenere un impegno rispetto ad una scadenza, assumere una responsabilità etc. L’organizzazione della didattica ovviamente dovrebbe cambiare perché non si imparano queste competenze attraverso  esortazioni verbali e lezioni; un simile mutamento richiede un diverso funzionamento del gruppo docente di una classe che deve ispirarsi agli stessi principi e condividere le modalità di proporre le diverse attività per ciascun ambito disciplinare”. Come sempre, la realtà ci pone davanti delle sfide che sta a noi zappatori e concimatori accogliere. Se veramente ci muove l’ottimismo di fondo sulla fruttuosità dell’albero piantato nella vigna, non possiamo restare a guardare. Bisogna darsi da fare. Ne va della nostra stessa essenza.




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Piero Del Bene

Sposo, padre, insegnante di matematica e scienze nella scuola secondaria di primo grado. Catechista e formatore. Dopo la laurea in Matematica ha conseguito il Master in scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Con la moglie Assunta si occupano di Pastorale Familiare.

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