Barbara, la figlia possibile

mamma

di Barbara Martínez Yeomans
Traduzione dallo spagnolo a cura di Maria Pia Sacchi

La storia di Barbara e dei suoi genitori è arrivata in redazione grazie ad una coppia di amici. Una storia d’amore che proviene dal Messico: “Non potevamo avere figli. Poi un giorno ci hanno chiamato dall’ospedale ed è arrivata la nostra Barbara. Non è la mia figlia ideale, ma è l’unica possibile ed è unica”. Ua storia da condividere…

“Perché il sangue che abbiamo ereditato non è più il sangue che avevamo quando siamo venuti al mondo, il sangue che abbiamo ereditato è fatto delle cose che abbiamo mangiato da bambini, delle parole che ci hanno cantato quando eravamo nella culla, delle braccia che ci hanno stretto, dei vestiti che ci hanno coperto, delle battaglie che altri hanno combattuto per darci la vita. Però innanzi tutto il sangue si tesse con le storie e i sogni di chi ci fa crescere” (Angeles Mastretta, scrittrice messicana).

Mi piacerebbe dire che, quando Barbara arrivò nella mia vita quel 10 agosto del 2000, il legame affettivo che unisce genitori e figli si stabilì in modo fluido e rapido come succede nella maggior parte dei casi. Ma sarebbe una bugia. Quando presi in braccio la prima volta mia figlia, invece di provare calde emozioni e teneri sentimenti, mi prese una paura terribile, un desiderio di andarmene di corsa e lasciare il più lontano possibile da me questa piccola sconosciuta.

Vedete, nel giugno del 2000 ero frustrata, arrabbiata, triste e depressa perché dopo vari anni di cure e di interventi difficili e dolorosi, la scienza mi aveva messo dinnanzi due sole strade per diventare madre: la fertilizzazione “in vitro” o l’adozione. La prima opzione era totalmente fuori della mia portata – non certo per i soldi, perché mio marito ed io potevamo affrontarne tranquillamente le spese – ma impiantare due o tre embrioni nel mio utero, congelarne altri cinque o sei per eliminarli dopo un po’ di tempo mi sembrò un enorme peccato. Per me si tratta di aborto, e questo non potrei mai accettarlo. L’altra strada era l’adozione, che pure non avrei voluto contemplare come possibilità. Io desideravo un figlio mio, della mia carne e del mio sangue. Ricordo l’amarezza e la rabbia che provavo verso Dio. La mia grande superbia non accettava che questo dovesse succedere proprio a me, se tutto nella mia vita era andato bene.

Quell’estate, durante una vacanza con mio marito, mi decisi per l’adozione (mio marito mi disse che per lui era indifferente, e che avrebbe appoggiato qualsiasi mia decisione). Io pensavo che, viste le lunghe procedure che di solito sono necessarie in Messico per l’adozione (dai tre ai cinque anni), avrei avuto tutto il tempo per guarire e per accogliere questo bambino come fa una brava mamma. Ma Dio aveva altri progetti, decisamente. All’inizio di agosto di quell’anno, comunicammo anche in famiglia che volevamo adottare un bimbo e che stavamo iniziando le pratiche necessarie. Una settimana dopo, arrivò una telefonata da un nostro parente. Mi disse: “Venite subito all’ospedale, c’è una donna che vuole dare in adozione il suo bambino”. Lo ricordo come se fosse ieri: seduta nel mio ufficio, la prima cosa che pensai fu: “No, assolutamente, non sono pronta, non posso ancora, non voglio, sono nel momento clou della mia carriera professionale…”. Ma sentii anche una voce che arrivò direttamente al cuore, e mi diceva: “Vai a prenderlo, è tuo figlio, tu sai che metti sempre in mezzo delle scuse, il momento perfetto è adesso, non quando vuoi tu”, e così con tutte le paure del mondo e con ogni fibra del mio essere che diceva “non farlo”, decisi di ascoltare quella voce – la voce dello Spirito Santo – e di andare a prendere mio figlio. 

Quando arrivammo all’ospedale, mio marito aveva convocato anche il nostro avvocato, perché volevamo che nostro figlio (o figlia) fosse legalmente adottato.  Attendemmo due ore all’ospedale prima di veder arrivare la mamma biologica di mia figlia che la teneva in braccio, e l’avvocato. Io ero al di là della paura: ero sotto shock. Me la misero in braccio (ci rendemmo conto allora che era una bambina). Ramiro, mio marito, prese accordi per iniziare le pratiche di adozione attraverso l’avvocato, mentre io non osavo nemmeno guardare il suo faccino. In pochi minuti, ci trasformammo in genitori nuovi di zecca di una bella bambina. Con una “gravidanza” di due ore, non avevamo nemmeno il minimo indispensabile: un lettino dove farla dormire, vestitini, seggiolino per la macchina, non sapevo chi avrebbe potuto tenerla quando io lavoravo, non avevo la minima idea di cosa fare se avesse pianto di fame, non avevamo neanche un pannolino. I miei genitori e le mie cugine erano fuori città. Ciononostante, ci sono sempre angeli che ci aiutano: mia cognata mise un po’ di ordine in questo caos, mi insegnò a farle il bagno, la vestimmo con indumenti di mia nipote, parlò con il pediatra dei suoi figli e ci diede una lista di cose che avremmo dovuto comprare e fare subito.

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Fu così che diventammo genitori. Le prime tre notti supplicavo Dio con tutto il cuore che la mamma biologica si pentisse, che tornasse a prenderla, per tornare alla mia vita “normale”. Non avvenne nulla di tutto questo. Dal momento che non avevo niente di mio da darle, le offrii la sola cosa che potevo: il mio nome. Così la chiamai Barbara, come me. La mia piccolina diede subito segnali che non sarebbe stata una bambina facile: le riscontrarono una malattia cardiaca nel primo mese dopo la nascita, nel secondo i medici notarono che i suoi occhi non reagivano normalmente alla luce; nel mese dopo, notammo che le sue risposte agli stimoli sonori non erano regolari, piangeva inconsolabilmente se la mettevamo in posizione prona, certi tessuti la infastidivano parecchio, e la sua testa non cresceva normalmente. Dalla paura di averla passai alla paura di sapere che cosa avesse mia figlia (in quelle circostanze finalmente cominciavo a sentirla come figlia), e cosa potessimo fare per aiutarla. Ancora degli angeli sulla nostra strada ci dissero che il danno neurologico di mia figlia era pesante e che, indipendentemente dal percorso medico, dovevo iniziare la sua riabilitazione il più presto possibile. Barbara avrebbe avuto bisogno di assistenza a tempo pieno; così dissi addio alla mia promettente carriera e mi dedicai alla sua cura, alla sua improbabile riabilitazione in prognosi riservata, perché al di là del danno neurologico congenito scoperto dagli specialisti (agenesia del corpo calloso e spina bifida occulta), nel momento del parto e per mancanza di ossigeno era nata con paralisi cerebrale e alterazione di integrazione sensoriale. Difficilmente si sarebbe mossa da sola, e al massimo sarebbe vissuta due anni.

Trovammo sulla nostra strada persone che ci consigliavano di restituire la bambina (come se si fosse trattato di un paio di scarpe che non mi andavano bene) ma furono di più, molte di più le persone che Dio mise sui nostri passi che ci aiutarono (e ancora lo fanno): i miei genitori, i miei cugini, le mie amiche, persone che ci sono sempre state nei momenti belli e in quelli brutti. Nei primi anni di vita fui la sua terapeuta e la sua riabilitatrice. Lavoravamo circa 10 ore al giorno, tranne i fine settimana. Andò avanti così per molto tempo, finché mia figlia a 18 mesi riuscì a controllare il busto e la testa per stare seduta. Ancora tanto tempo e tanto lavoro, e un giorno, un glorioso giorno, quando Barbara aveva tre anni, al di là di ogni previsione, gattonò per la prima volta e poté provare la gioia di muoversi da sola. A quattro anni tenne in mano un giocattolo, e a sei anni mosse i primi passi. So che per tutti i genitori i primi passi dei figli sono meravigliosi, ma per me sono stati uno dei tesori più grandi della vita: come i primi passi dell’uomo sulla luna.

Barbara sta per compiere 22 anni. Dopo aver camminato da sola, ha fatto pochi altri progressi psicomotori. Non parla, non controlla gli sfinteri, ha bisogno di aiuto per mangiare, gli alimenti devono avere una precisa consistenza, è stata in ospedale tante volte, ha sviluppato l’epilessia e deve assumere farmaci salvavita per controllarla.  Sono tante le cose che non ha e che non raggiungerà. Ma tutti questi NO sono solo una parte di quello che lei è. Questa storia forse potrebbe procurare qualche patimento al lettore, ma la realtà è molto più bella: Barbara è completamente felice. Come dice Santa Teresa di Gesù, niente la turba e niente la spaventa. Sa e crede che tutte le sue necessità saranno soddisfatte. Si sente amata, come è, e corrisponde a questo amore con tutto il suo essere. Anche se suo padre e io ci siamo separati da qualche anno, lui le vuole bene e lei si trasforma nella persona più felice del mondo quando lo vede. Le piacciono i viaggi in aereo, i giri in automobile, le piace vedere in TV i suoi programmi preferiti, ama i letti morbidi e comodi, la musica regionale messicana, le piace quando la abbraccio e ogni volta che mi vede il suo viso si illumina di gioia. Le piace molto andare a scuola. Le piacciono i ragazzi, meglio se alti. Gusta e mangia con avidità lo yogurt e la banana. Ha persone che la curano e la amano come pochi. A lei non importa se ci sono o no abbastanza soldi, se c’è la guerra nel mondo, la pandemia Covid, il riscaldamento globale, se la gente la guarda stranita o se la prendono in giro, se la ignorano, tutto questo non la preoccupa. Lei sa che sua mamma è al suo fianco e questo le basta.

Credo che tutti veniamo al mondo con una missione: qualcuno la scopre subito, altri muoiono senza trovarla. La missione di Barbara è stata quella di nascere per essere felice, e nel contempo insegnare a noi che la amiamo qualche importante regola di vita:

  1. Dio vuole che tutti siamo felici. Perché ci facciamo tanti problemi?
  2. È vero, c’è tanta cattiveria dappertutto, però ci sono persone che hanno un cuore d’oro e fanno di questo mondo un posto migliore. Barbara è esperta nell’individuarle. Semplicemente, ha una specie di radar che a me manca.
  3. Il miracolo di vivere. Prima di Barbarita, non mi sarei mai presa la briga di considerare un miracolo il fatto di tenere in mano un giochino e di farlo muovere, ma sono così tante le condizioni che si devono verificare perché questo avvenga, che è un miracolo ogni funzione del nostro corpo, per semplice e automatico che noi lo consideriamo. 
  4. Il “normale” è una somma di benedizioni che la maggioranza di noi mortali guarda dall’alto. Io ho avuto la fortuna di contemplare e meravigliarmi per ciascuna di esse.

Mia figlia è venuta per farmi riconsiderare la mia relazione con Dio. Barbara crede che io farò tutto quello che è nelle mie possibilità perché lei stia bene. Nei suoi primi anni di vita, nelle sue sedute di maratona riabilitativa, lei piangeva e con lo sguardo mi chiedeva di smettere.  Benché soffrissi con lei, conoscevo l’importanza di continuare con la sua attività, perché avevo un obiettivo che lei non poteva capire. Lo facevo perché, alla fine dei conti, era il meglio per lei. Noi come esseri umani non abbiamo la capacità di capire il piano o l’obiettivo che Dio ha per noi, anche se ce lo spiegasse nel dettaglio. Semplicemente, non siamo in grado. Quante volte ho chiesto a Dio che mi evitasse un dolore o una difficoltà; Dio sembra non ascoltare, non sentire, ma noi dobbiamo avere la fiducia e la fede che quello che Lui sta facendo è per il nostro bene. La “Fiducia”, come dice tante volta don Silvio nelle sue omelie…  e io penso: se avessi in Dio la stessa fiducia che Barbarita ha in me, come sarebbe diversa la mia vita e quella di chi amo! Se mi abbandonassi nelle sue braccia come mia figlia lo fa nelle mie, avrei tanta pace!

Chi mi avrebbe detto nel 2000 che avrei vissuto tante belle esperienze grazie a questo essere meraviglioso? È la figlia che sognavo di avere? È la figlia ideale? È la figlia della mia carne e del mio sangue? No. È la mia figlia possibile, reale, unica e irripetibile. È la figlia della mia anima e del mio cuore.  Di tutto è valsa la pena, e noi siamo persone benedette da Dio. 




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