In quanto insegnante mi domando: che fine fa il mio lavoro?

21 Giugno 2022

Chi riuscirà a misurare o a vedere l’effetto prodotto dai miei sorrisi in classe ai ragazzi? Chi potrà misurare l’effetto delle buone relazioni che cerco di costruire nell’ambiente dove lavoro? Di questo sforzo, probabilmente, resterà un alone, un vago ricordo. Quello che so è che la scuola si muove se io, insegnante, mi muovo.

Mi sono sempre chiesto, fin da giovane e poi, con più convinzione, da obiettore di coscienza, perché per festeggiare la Repubblica, il due giugno, si debba mettere in scena la potenza militare sotto forma di sfilate di forze armate. Pensavo, tra me e me, che tali ostentazioni di forza bellica fossero un retaggio, duro a morire, di regimi totalitari attraverso i quali siamo passati storicamente come nazione. Per essere più esplicito, mi chiedevo e mi chiedo: una nazione è grande perché ha potenti forze armate? Ognuno risponda per sé, secondo la propria sensibilità. Per quello che mi riguarda, invece, farei sfilare i veri artefici del funzionamento di una nazione. I medici, per esempio, hanno esordito lo scorso due giugno grazie al merito conquistato nella lotta contro il coronavirus nell’emergenza sanitaria che a fatica ci stiamo mettendo alle spalle. 

Farei sfilare i netturbini. Come sarebbero le nostre strade se costoro non le ripulissero quotidianamente? Farei sfilare gli italiani che hanno contribuito allo sviluppo di migliori condizioni di vita sulla terra. Sono migliaia e non vengono mai valorizzati a sufficienza. Potrei continuare. Invece il due giugno è di pertinenza, con sporadiche eccezioni, di politici e militari. Sarà per questa mia particolare predisposizione che, quando ho letto la lettera aperta scritta dal Cardinale Zuppi, vescovo di Bologna e, da pochi giorni, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ho provato una forma di sollievo interiore. Non tutti conosciamo bene il neo presidente. Qualcuno lo ha subito etichettato come un altro “progressista” dando a questo aggettivo l’accezione negativa di chi non si riconosce nelle sue posizioni. Vedremo nel corso degli anni. La lettera che ha scritto in occasione della festa della Repubblica, però, offre numerosi e notevoli spunti di riflessione anche per chi, come me, guarda il mondo dalla cattedra. Non si tratta di una forzatura interpretativa. Lo stesso prelato, infatti, esordisce rivolgendosi, tra gli altri, a “chi opera nelle aule di università o delle scuole”. Parla di me, quindi. Un motivo valido per leggere con attenzione ciò che dice. Seguiamolo.

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Da insegnante, mi sento letto dentro quando scrive “in realtà tanta parte del suo lavoro non si vede”. Sono spesso accusato, in quanto docente, di lavorare poco, di avere tre mesi di ferie d’estate e amenità simili. Non voglio entrare nel merito perché nei giorni scorsi sono uscite relazioni di persone più importanti ed influenti di me che si sono preoccupate di smentire tutto punto per punto. Intanto io, come suggerisce Zuppi, avverto il mio insegnare più come servizio. È lavoro. È sicuramente sottovalutato. È duro. Ma è soprattutto servizio invisibile e non misurabile e lo dico da sostenitore di istituti, come l’INVALSI, che provano a misurare il mio operato. Ho già affrontato altrove il tema, ma non posso non chiedermi anche qui dove finisce il mio lavoro. Che fine fa? Cosa ne resta? In realtà la maggior parte del mio lavoro non si vede. 

Chi riuscirà a misurare o a vedere l’effetto prodotto dai miei sorrisi in classe ai ragazzi? Chi potrà misurare l’effetto delle buone relazioni che cerco di costruire nell’ambiente dove lavoro? Di questo sforzo, probabilmente, resterà un alone, un vago ricordo impresso nell’animo dei miei alunni che, tra qualche anno, incontrandomi e ripensando a me, ricorderanno le chiacchierate allegre piene di battute e la libertà di esprimersi sperimentata nelle mie ore. Credo che queste siano nozioni che non si dimenticano. Credo che restino impresse indelebilmente nelle persone. Assai argutamente, infatti, il Presidente della C.E.I. fa notare che “al centro della Costituzione c’è la persona, cioè sempre un noi. Non c’è l’individuo”. Ecco, credo che la parte più invisibile del mio servizio consista delle relazioni costruite con alunni, famiglie e colleghi. Credo anche che tale parte sia incommensurabile e tenacemente permanente. Per questo motivo, alla fine di un anno durissimo da condurre e da gestire per le scuole, credo si possa anche dire che la scelta di tenerle ostinatamente aperte sia da ritenere valida. 

Dalla cattedra, infatti, ho ritrovato un’umanità bisognosa di relazioni in carne ed ossa. Bisognosa inconsapevolmente, sembra una banalità, di incontrare qualcuno che la pensi diversamente da te. Le risse e gli episodi di violenza a cui ci sottopone la cronaca, in fondo, rappresentano solo un sintomo di questa atomizzazione dell’essere, agevolata dagli algoritmi dei motori di ricerca della Rete che, come è noto, inseguono le passioni dell’utente negandogli la possibilità di incontrare altri punti di vista diversi dal proprio. La persona (e questo è un patrimonio che il cristianesimo ha immesso nel mondo Greco latino) è essenzialmente relazione. La persona è un “noi”. A scuola lo impariamo. Lo abbiamo riscoperto a seguito dell’emergenza sanitaria. Non lo abbiamo ancora capito del tutto. Si diventa pienamente persona incontrando coloro che la pensano “diversamente da me”. È la differenza che ci rende, se possibile, maggiormente persona. In questa differenza diventa fondamentale l’umiltà. È inevitabile qui citare un passaggio edificante ed illuminante della lettera aperta: “Gli umili non si stancano, non diventano presuntuosi e intrattabili, non agiscono per interesse ma perché quello che svolgono è un servizio e lo fanno anche quando non conviene, ma conviene a chi lo ha chiesto. Si adoperano pure quando nessuno si ricorderà della scelta, solo perché è giusto farlo. E questo resta, aiuta, risponde, protegge”. 

Fare le cose per bene, fa bene agli altri e, alla fine, fa bene anche a chi le fa. La cosa più incommensurabile che si possa “passare” ad un giovane consiste nella scelta di “fare le cose per bene” per il semplice gusto di farle per bene, perché è giusto così, perché questo è un servizio all’umanità, perché, per chi crede, questo è un servizio a Dio, perché questo ci dona una insperata finale felicità interiore. In fondo, studiamo per amare meglio. Non per i voti, non per il regalo che qualche adulto ha promesso a fine anno, non per soddisfazioni esterne. Semplicemente perché è giusto così. Rimasi folgorato su questa strada quando Luigino Bruni, scrittore e uomo di fede, raccontò qualcosa di simile durante il suo intervento alla Giornata Mondiale delle Famiglie tenutasi a Milano qualche anno fa. Raccontò di un suo parente rinchiuso in un lager e lì costretto a costruire un muro perché carpentiere. Lo fece a regola d’arte. Quando qualcuno gli imputò questa scelta come collaborazionismo verso i nemici, il muratore fece notare che lui sapeva solo fare muri perfetti perché è giusto così. Non dipende dal committente. Dipende dalla coscienza del costruttore. 

Ecco: fare le cose a regola d’arte è un fatto di coscienza, indipendente dalla persona che ne usufruirà. Vorrei passare questo ai miei alunni. Non serve un premio esterno. Le cose vanno fatte bene perché è giusto così. Questo discorso, evidentemente, chiama in causa le competenze. Anche su questo il Cardinale ha avuto un felice passaggio quando ha delineato alcuni passaggi necessari che ci portano “dal dilettantismo alla competenza, da una felicità individualistica al sacrificio per stare bene tutti, dall’apparenza alla sostanza, dal successo rapido e a tutti i costi alla costruzione paziente di quello che dura, dal fare le cose per il consenso, per il potere, per la considerazione e il ruolo sociale, a farle solo perché sono giuste, insieme e non da soli, anche se lì per lì sembra convenire meno”. Poi, Zuppi ha un passaggio di grande laicità: “Mi sento chiamato a questo come cristiano, credo si possa realizzare prima di tutto con l’aiuto di Cristo”. Sta parlando dell’attuazione della costituzione a dei laici. Non nasconde tuttavia il suo punto di partenza: essere cristiano. Anche nella scuola è così. La scuola è sicuramente laica, ma questo non vuol dire antireligiosa. Spesso il meglio nelle scuole arriva da chi professa una fede. Scrivo queste cose nei giorni di inizio estate in cui l’anti di turno tira fuori il refrain secondo il quale la religione a scuola non deve entrare. Come si fa a chiedere ad un insegnante che professa una fede di insegnare come se quella fede non esistesse? Forse è insegnante proprio a causa della fede che professa. Come può anche un docente ateo, dico per fare un esempio, non sposare i pensieri di don Primo Mazzolari che Zuppi riporta nella sua lettera? Scrisse: “Ci impegniamo noi e non gli altri … né chi sta in alto, né chi sta in basso, senza pretendere che gli altri si impegnino … senza giudicare chi non si impegna … il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi mutiamo, si fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura …” Ecco la chiave di lettura: la scuola si muove se io, insegnante, mi muovo. Cambia se io cambio. Si rinnova se io mi rinnovo. Non sempre va guardato il Ministro o il Governo (chi sta in alto) o le famiglie e le loro pretese talvolta fuori luogo. Guardo me. Lavoro su me. Cerco di fare le cose per bene, per me. Faccio ciò che credo giusto, non ciò che conviene in un certo momento storico. “La primavera inizia con un fiore” e probabilmente quel fiore sono io. Il mio compito è sbocciare. Qualcuno ne trarrà beneficio o sarò ignorato da tutti. Non importa, diceva don Mazzolari, l’importante è fare la propria parte. Ecco questo sarebbe veramente un bel modo di celebrare la festa della Repubblica: ognuno faccia fino in fondo la propria parte con competenza, passione, speranza, apertura, amore. “Ogni persona è preziosa se è amata e difesa, come ogni persona è insignificante quando questo sguardo manca.” Ecco, dalla cattedra posso guardare una persona e renderla preziosa. Che privilegio!




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Piero Del Bene

Sposo, padre, insegnante di matematica e scienze nella scuola secondaria di primo grado. Catechista e formatore. Dopo la laurea in Matematica ha conseguito il Master in scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Con la moglie Assunta si occupano di Pastorale Familiare.

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