Il Vangelo letto in famiglia

XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C – 17 luglio 2022

Invitati a diventare contempla-attivi

Non si può agire per la felicità, propria e altrui, se l’azione non nasce da una seria contemplazione. Non posso sapere qual è la cosa giusta da fare, se non è Cristo stesso a dirmelo nella preghiera e nell’adorazione. Di conseguenza, l’azione che segue la contemplazione sarà senz’altro efficace perché nascerà dalla volontà di Dio.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 10,38-42)
In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

IL COMMENTO

di don Gianluca Coppola

La Prima Lettura proposta dalla Liturgia della Parola di questa sedicesima domenica del Tempo Ordinario si sofferma sulla vicenda di Abramo che ospita tre uomini, episodio che offre un fondamentale esempio di grande ospitalità: tre uomini, nell’ora più calda del giorno, si presentano dinanzi alla tenda di Abramo, che immediatamente comprende che, in quel suo atteggiamento ospitale, sta aprendo le porte a Dio. Potremmo subito trarre una prima conclusione: l’ospitalità, quando è compiuta in maniera santa e intelligente, può essere la via per incontrare il Signore e la sua volontà. Abramo, infatti, si trova di fronte a Dio stesso, che lo visita e dona la fertilità alla sua sposa Sara; dunque, la vera ospitalità apre le porte a Dio che parla ed è feconda. Inoltre, da questo episodio potremmo addirittura ricavare un’importante informazione teologica, in quanto Abramo, pur rivolgendosi ai tre uomini, usa il singolare, affermando «Mio Signore», il che conferma che la verità trinitaria è presente fin dal racconto riportato in Genesi.

Proviamo a soffermarci su una domanda: come deve essere l’ospitalità per risultare santa? Essa, innanzitutto, deve essere praticata nella certezza di poter avere uno scambio di cose belle con la persona ospitata. Un’ospitalità, nel momento in cui non è reciprocamente feconda, potrebbe addirittura rivelarsi dannosa. Ospitare è anche un’opera di misericordia: l’atto stesso di ospitare, e quindi di donare qualcosa di sé, è uno scambio ed è proprio vero che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. L’ospitalità, inoltre, deve essere fatta nella consapevolezza di portare avanti un atto che riempie il cuore di chi lo compie. Qui potremmo aprire una parentesi sulla questione dei migranti, ma non lo faremo; diremo soltanto che piuttosto che imporre a un popolo, a livello politico e ideologico, di ospitare altre persone bisognerebbe partire da Cristo e dal Vangelo, bisognerebbe affermare con convinzione che aprire il cuore, aprire la mente e le case per annunciare il nome santissimo di Gesù non può che fare del bene. Perché come abbiamo già affermato, l’ospitalità o è nel nome di Cristo oppure può diventare addirittura dannosa. È particolare vedere, come anche nella Chiesa stessa, quando si parla di ospitalità non si accenna più all’evangelizzazione: com’è possibile che la Chiesa senta l’ansia di accogliere, ma non percepisca l’ansia di annunciare il nome di Gesù che salva?

Passiamo ora al brano del Vangelo di questa domenica, in cui ritroviamo un altro esempio, riuscito, di ospitalità. Gesù entra nella casa dei suoi amici, Lazzaro, Maria e Marta, i suoi migliori amici di Betania. Anche in questa ospitalità avviene uno scambio: Gesù, infatti, dona se stesso, il massimo dei doni che un uomo può ricevere. Evidentemente, non porta con sé un dolce o un regalo, perché nella bellezza di ciò che Lui è c’è ogni dono perfetto. Questo dunque ci fa comprendere la centralità di Gesù e soprattutto ci ricorda che, l’ospitalità o è nel suo nome o non ha motivo di esistere. Le nostre case dovrebbero diventare come quella di Maria e di Marta, templi della verità di Dio che si manifesta nella presenza di Gesù. Quante cattive ospitalità avvengono e diventano causa di dissidi familiari o addirittura di tradimenti o di fine di matrimoni. Lo stare insieme, infatti, è una dimensione bellissima delle relazioni umane e ne sentiamo l’esigenza soprattutto dopo quello che abbiamo vissuto, e purtroppo stiamo ancora vivendo, a causa della pandemia; eppure stare insieme senza il dono reciproco che è Cristo potrebbe risultare controproducente. Anche all’interno dei nostri incontri in parrocchia, dopo aver cercato di mettere la Parola di Dio al centro, talvolta è sufficiente un banale pettegolezzo per distruggere tutto ciò che è stato fatto. Stare insieme, allora, è necessario, ma risulta produttivo solo quando la centralità è riservata a Gesù e al suo Vangelo.

Difatti, stare insieme in Gesù non significa non mettere la propria umanità al centro o non divertirsi. Tra le righe del Vangelo di questa domenica leggiamo che Marta e Maria, in Gesù, hanno l’opportunità di tirar fuori la loro interiorità, perfino il loro disagio, hanno l’occasione di guardare in faccia realmente la loro umanità. Quanti dei nostri incontri, delle nostre cene, dei nostri ritrovi non hanno il carattere della verità perché la nostra umanità non viene fuori, perché si svolgono indossando delle maschere che portano alla menzogna e, di conseguenza, non conducono a nulla e non fanno altro che aumentare il senso di frustrazione che spesso attanaglia le nostre vite. Questo accade quando non mettiamo la verità al centro delle nostre relazioni e, così facendo, Si deteriorano i rapporti, che si basano sulla frivolezza e poi finiscono miseramente.

E invece, porre Gesù al centro permette addirittura di risolvere una diatriba tra sorelle. Il Vangelo afferma che Marta ospita Gesù. È Marta, infatti, che lo ospita e si occupa di tutta la parte pratica: Gesù aveva portato con sé nulla da mangiare e, se Marta non avesse provveduto alla parte pratica, Gesù non avrebbe mangiato. Marta, dunque, rappresenta l’ospitalità pratica; sua sorella Maria, invece, ha oggettivamente scelto la parte migliore, perché ospita Gesù ascoltandolo. Entrambe svolgono un ruolo fondamentale, ma grazie a Gesù riescono a risolvere il loro complesso, le loro ferite. Marta pensa di poter risolvere tutto con le sue doti pratiche, Maria ritiene, stando ai piedi di Gesù, di non doversi preoccupare delle incombenze pratiche. Gesù, allora, accogliendo lo sfogo di Marta, ha l’occasione di risolvere il loro contrasto e di far comprendere che entrambe sono essenziali. Una vera ospitalità ha bisogno di entrambe le dimensioni: il lavoro di Marta e l’ascolto di Maria. Così la Chiesa, oltre a imparare ciò che tra poco diremo e che costituisce l’interpretazione classica del brano, impara una cosa nuova, dal momento che la Parola di Dio è viva e, come organismo vivente, parla ancora oggi nell’era post-pandemica e bellica, nonché caratterizzata da flussi migratori, e cioè che l’ospitalità o è fatta di azione e contemplazione che porta all’annuncio di Gesù come Signore o non serve alla “salvezza integrale della persona umana”.

Al di là del discorso riguardante l’ospitalità, come accennato, questo passo del Vangelo si sofferma sulle due dimensioni della vita cristiana che non possono mai essere scisse: l’azione e la contemplazione. Maria esprime l’anima contemplativa del cristiano, Marta quella attiva. Gesù sostiene che «Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta», ma non lo dice perché la dimensione rappresentata da Marta non sia necessaria. Quella raffigurata da Maria, infatti, è migliore soltanto in senso cronologico: non si può agire per la felicità, propria e altrui, se l’azione non nasce da una seria contemplazione. Non posso sapere qual è la cosa giusta da fare, se non è Cristo stesso a dirmelo nella preghiera e nell’adorazione. Di conseguenza, l’azione che segue la contemplazione sarà senz’altro efficace perché nascerà dalla volontà di Dio. Un esempio di quanto appena affermato potrebbe essere la vita delle suore di Madre Teresa di Calcutta, le suore della carità, che notoriamente svolgono una vita missionaria freneticamente attiva a favore dei più poveri, compiendo grandi miracoli di carità. Come molti sanno, la loro giornata è scandita da ben quattro ore di preghiera e quindi la loro azione è fortemente imperniata sulla contemplazione. È da Cristo vivo nell’Eucaristia che ricevono la forza di agire e di agire in maniera intelligente.

Un cristiano quindi, come detto da grandi teologi, è completo quando sa miscelare sapientemente la contemplazione con l’azione, per usare un termine caro ai teologi del Concilio, quando è “contempl-attivo”. Il Signore ci doni ogni giorno il gusto di contemplare il suo volto, per poter trovare la forza di agire in questo mondo come veri e, soprattutto, felici discepoli del suo Vangelo.




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Gianluca Coppola

Gianluca Coppola (1982) è presbitero della Diocesi di Napoli. Ha la passione per i giovani e l’evangelizzazione. È stato ordinato sacerdote il 29 aprile 2012 dopo aver conseguito il baccellierato in Sacra Teologia nel giugno del 2011. Dopo il primo incarico da vicario parrocchiale nella Chiesa di Maria Santissima della Salute in Portici (NA), è attualmente parroco dell’Immacolata Concezione in Portici. Con Editrice Punto Famiglia ha pubblicato Dalla sopravvivenza alla vita. Lettere di un prete ai giovani sulle domande essenziali (2019) e Sono venuto a portare il fuoco sulla terra (2020).

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