Se un insegnante dimentica di essere un eterno studente non sarà mai un buon insegnante

11 Agosto 2022

I mesi sono volati senza fiato e senza consapevolezza. Giugno ci è quasi piombato addosso inaspettatamente. Possiamo sperare di tornare a immaginare i nostri passi futuri con un minimo di progettazione sperando di poterne attuare almeno una parte? Ha ancora senso salire al piano superiore della meditazione e della progettazione estiva? Ha ancora senso ritagliarsi il tempo per formarsi come docente? 

E poi, quasi inaspettatamente, arriva la calma di fine luglio. Abbiamo alle spalle un anno scolastico vissuto all’insegna delle mutazioni, delle novità, delle decisioni da prendere di domenica sera per il lunedì mattina, di problemi che piombano addosso e che pretendono una soluzione (la migliore possibile) in pochi istanti, di richieste dall’alto (governo) e dal basso (famiglie), di burocrazia (se possibile, ancora più dilatata), di lavori non programmati e non programmabili, data la situazione, ma anche di una programmazione pensata in un modo e realizzata in tutt’altro, di (buoni) propositi travolti dagli eventi e dalle decisioni del Governo e poi del Governatore. I mesi sono volati senza fiato e senza consapevolezza. Giugno ci è quasi piombato addosso inaspettatamente. Si è trattato di una caratteristica solo dell’ultimo anno scolastico? Sarà sempre così? Sarà sempre di più così? Oppure possiamo sperare di tornare a immaginare i nostri passi futuri con un minimo di progettazione sperando di poterne attuare almeno una parte? Ha ancora senso salire al piano superiore della meditazione e della progettazione estiva? Ha ancora senso ritagliarsi il tempo per formarsi come docente? In fondo, i tre mesi (che poi 3 non sono) estivi di cui tanti (anche a sproposito) parlano servirebbero a questo. Al coltivarsi dell’insegnante. Perché se un insegnante dimentica di essere un eterno studente non sarà mai un buon insegnante. 

Se sta troppo da questo lato della cattedra, dimenticandosi come si vive dall’altra parte, perde il centro della natura del suo lavoro. Non è più capace di costruire ponti con l’alunno. E quanti docenti si incontrano che sono arroccati al di qua della cattedra, privi di empatia, tutto programma, voto e poca umanità! Invece, mai come in questa estate, diventa importante, addirittura fondamentale, alzarsi di livello, salire un po’ più in alto e provare a guardare la realtà da un’ottica più esterna ai fatti. Fare come quegli allenatori che, per capire meglio lo schieramento degli avversari, mandano un collaboratore (o vanno in prima persona) a vedere la partita dalle tribune. Dall’alto, certe dinamiche diventano molto più chiare. Si capiscono meglio. Ecco allora che, ancora col fiato corto, sto utilizzando questo spezzone d’estate per vedere la scuola dalla tribuna. Spero che questo mi aiuti ad impostare meglio la tattica per il prossimo anno, per rimanere nella metafora. Non che io sia partito con questo intento. Sarei una mente straordinariamente illuminata. Non lo sono. È stata la lettura di un libro che ha messo in moto questa riflessione. Anche leggere, nel flusso indefinito degli eventi dell’ultimo anno, è diventato un lusso solamente estivo. 

Per questo motivo scelgo bene i libri da leggere: non c’è molto tempo per quelli sbagliati. Il tutto parte da questa frase tratta da un testo che parla d’altro: «Da quaranta anni, circa, l’umanità è entrata in un contesto epocale del tutto differente rispetto a quello che ha contraddistinto la vita dei nostri antenati prossimi e in qualche caso anche la giovinezza dei più adulti tra noi.(…) Dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, la cultura occidentale, ovvero quel certo modo di vedere e apprezzare il mondo specifico di quella parte di pianeta che va sotto il nome di Occidente, ha subito una radicale mutazione: è entrata nella stagione della postmodernità». 

Non si derubrichi subito il discorso come “astratto” e, quindi, inutile. Per chi accompagna giovani, il quadro riportato è terribilmente concreto. Esso assume le facce, i gesti, i pensieri dei ragazzi che incontriamo ogni giorno tra i banchi di scuola. Ancora di più, tuttavia, esso delinea la figura del genitore medio che incontriamo: l’adulto che ci manca, quello che manca anche ai nostri ragazzi. L’adulto come si era abituati a vederlo, infatti, è evaporato attraverso un processo di disattivazione dei grandi paradigmi che hanno formato il modo di vedere e vivere dell’uomo medio fino agli inizi degli anni settanta. In pochi anni sono stati messi da parte i contributi di Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, della cultura greco-giudaica e giuridico-romana. Prima di tutto, però, è saltata l’equazione etica di Socrate secondo cui conoscere il bene equivale a fare il bene e viceversa. Non ne scrivo con rimpianto. Non è detto che sia un passaggio negativo. E’ però un fatto di cui tenere conto, entrando in classe o incontrando l’uomo del nostro tempo. Queste disattivazioni repentine e ineluttabili ci hanno condotto in un’epoca di difficile comprensione. Cito dal libro il cui titolo è un emblematico Convertire Peter Pan: «Oggi, non esiste più spazio per gerarchie, stadi e fasi della vita, destini segnati per sempre, stabilità di legami e di mestieri, coerenza di pensiero di scelte, memoria della propria condizione precaria e mortale, sentimento di appartenenza a un qualche gruppo che è sempre più grande della somma dei singoli che lo compongono. (…) Si è imposto, al contrario, un ideale di vita totalmente segnato dal sentimento della libertà». 

L’uomo adulto del nostro tempo (il genitore ma anche l’alunno stesso, ma, drammaticamente, anche il docente!) appartiene ad un corpo fatto di individui privati (non più persone quindi, cioè esseri in relazione). Tale individuo non ha alcuno sopra e oltre se stesso, si avverte senza trascendenze, senza una verità condivisibile per cui nessuno ne cerca più una unica. Si tratta, quindi, di un individuo abitato da una notevole molteplicità di istanze interiori, spesso in conflitto tra loro, guidato, inevitabilmente, da sensazioni più che da istanze razionali. Egli è connotato anche da un allentamento del senso del proprio limite grazie alle continue possibilità offerte dalla tecnologia. Se vengono meno i grandi quadri antropologici di riferimento, l’individuo medio occidentale si ritrova anche senza una morale classicamente intesa, che viene letta come sinonimo di regola (con accezione rigorosamente negativa), inibizione, frustrazione, limitazione, mortificazione. Una nuova cultura edonistica muove il nostro amico, l’individuo postmoderno, che si ritrova (non sappiamo quanto consapevolmente) quali punti cardinali del proprio ethos poche nozioni: la vita è immanenza circondata dalla morte, le cause collettive sono inganni inflitti dai potenti alle classi popolari, ogni individuo persegue il proprio piacere e interesse, la realtà è ineluttabile, l’uomo è troppo debole per essere coerente (come altro interpretare, altrimenti, la goduria con cui certi giornali hanno dato la notizia della fine del matrimonio Totti-Blasi?), il problema stesso della coerenza è insensato e quindi bisogna godersi la vita finché ce n’è, col sesso, col consumo, gli spettacoli, il gioco ed il cibo, ultimo totem dell’opulenza occidentale. 

Leggi anche: Prof e alunni: consuntivo di tre anni avventurosi dopo la pandemia

L’ultima scena del film Don’t look up è, da questo punto di vista, iconica. Come stupirsi allora del fatto che l’affluenza alle elezioni stia crollando dovunque in occidente? A ben vedere si tratta di una logica conseguenza di tali premesse. Mi si perdoni il sommario tipicamente sociologico, ma esso è necessario per capire meglio le domande che seguono: cosa deve fare quest’uomo per vivere bene? Perché poi, e lo vediamo in tutti i settori, egli avverte di non stare bene e, dunque, si pone il problema. E si dà anche l’unica risposta che si può dare: secondo lui deve mantenersi giovane. O almeno fingere di esserlo. E questo è un problema non solo per lui ma anche per i giovani. Perché un ragazzo dovrebbe sentirsi chiamato a crescere se davanti a sé non ha modelli di uomini adulti nel senso reale del termine? E qui nasce il mio problema come docente: a cosa devo guidare i miei alunni? «Ecco davanti a noi l’adulto che siamo diventati: una massa di quarantenni, cinquantenni, sessantenni che fanno di tutto per non invecchiare, giungendo poi all’età della vecchiaia senza mai essere stati adulti, essendo del resto fin troppo occupati a mantenersi giovani, ponendo in essere le condizioni per fare fuori i giovani veri!». Tutto ciò, a ben pensare, è sotto i nostri occhi e non lo vediamo o fingiamo di non vederlo. La recente pandemia ha, se possibile, acuito il fenomeno. Rileggo con un certo imbarazzo le considerazioni poste all’inizio delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione. C’era scritto già tutto: «Il paesaggio educativo è diventato estremamente complesso. Le funzioni educative sono meno definite di quando è sorta la scuola pubblica. In particolare vi è un’attenuazione della capacità adulta di presidio delle regole e del senso del limite e sono, così, diventati più faticosi i processi di identificazione e differenziazione da parte di chi cresce e anche i compiti della scuola in quanto luogo dei diritti di ognuno e delle regole condivise. La scuola è perciò investita da una domanda che comprende, insieme, l’apprendimento e “il saper stare al mondo”». Il problema di fondo resta però il seguente: «L’intesa tra adulti non è più scontata e implica la faticosa costruzione di un’interazione tra le famiglie e la scuola, cui tocca, ciascuna con il proprio ruolo, esplicitare e condividere i comuni intenti educativi». A cosa preparo i miei giovani? Cosa conviene che io dia loro? Cosa è giusto? Esiste ancora un vissuto comune, con le sue regole ed espressioni condivise, che resista a questa atomizzazione dell’uomo? Si può cogliere la velocità del cambiamento nel quale siamo immersi a partire da questa citazione ancora dalle indicazioni:«Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale e le aperture offerte dalla rete di relazioni che la legano alla famiglia e agli ambiti sociali. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato». Sono passati solo dieci anni dalla pubblicazione del documento e già il linguaggio sembra essere uscito da un’altra epoca. Si parla di persona, ma oggi regna l’individuo, come abbiamo visto per cenni nelle righe precedenti. Supponendo, dunque, che un docente riesca a cogliere questa straordinaria divergenza di vedute tra il documento ed il nostro tempo, cosa deve fare? 

Personalmente preferisco accompagnare persone, ma questo diventa inevitabilmente un’azione sovversiva in questo nostro convulso tempo. Quanti colleghi hanno avuto problemi di vedute con chi dirige la baracca applicando questa risoluzione rivoluzionaria! Accompagnare un ragazzo alla consapevolezza di essere una persona, cioè un noi in relazione, è davvero l’unica rivoluzione possibile oggi. Aiutarlo a scoprire quanto sia fruttuosa la relazione anche e soprattutto con coloro che la pensano diversamente diventa un ministero, una missione, forse addirittura una vocazione. In questo senso non mi trovano d’accordo le motivazioni che spingono alcune famiglie a creare scuole parentali, gestite da genitori stessi, intese come riserve nelle quali continuare ad insegnare ai propri figli alcune idee ritenute la Verità, ma privandoli della possibilità di confrontarsi con chi quelle stesse idee ritiene che siano sbagliate. Si tratta di accompagnare i nostri giovani ad uscire dalle convinzioni blindate per non avere paura della Verità. Per realizzare ciò, però, c’è bisogno di grande forza, c’è bisogno di uscire da una certa mentalità uniformante. Si tratta di un’evasione, per dirla con questo racconto di Corrado Augias, un uomo col quale non sono sempre d’accordo. «Ricordo ancora la domanda che fece il professore di filosofia il primo giorno di liceo: “A che serve studiare? Chi sa rispondere?”. Qualcuno osò rispostine educate: “a crescer bene”, “a diventare brave persone”. Niente, scuoteva la testa. Finché disse: “Ad evadere dal carcere”. Ci guardammo stupiti. “L’ignoranza è un carcere. Perché là dentro non capisci e non sai che fare. In questi cinque anni dobbiamo organizzare la più grande evasione del secolo. Non sarà facile, vi vogliono stupidi, ma se scavalcate il muro dell’ignoranza poi capirete senza dover chiedere aiuto. E sarà difficile ingannarvi. Chi ci sta?”». 
Mentre ultimo il post, la seconda figlia mi parla della ragazza social che insegna a parlare in corsivo e penso che l’ignoranza oggi sia davvero molto coltivata perché rende anche economicamente, è più comoda, conviene a molti. Ma imprigiona. Se consideriamo che dai dati INVALSI emerge che solo un ragazzo su venti capisce un testo al termine delle superiori, non posso che pensare agli altri diciannove, che faticano ad evadere e rischiano l’ergastolo dell’ignoranza. È difficile competere con i social che sono più luccicanti e attraenti, ma è ciò a cui noi, insegnanti e genitori, siamo chiamati in questo tempo complesso: ecco la missione per il nuovo anno, proporre di evadere dal carcere dell’ignoranza per diventare persone in relazione. 




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



Piero Del Bene

Sposo, padre, insegnante di matematica e scienze nella scuola secondaria di primo grado. Catechista e formatore. Dopo la laurea in Matematica ha conseguito il Master in scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Con la moglie Assunta si occupano di Pastorale Familiare.

ANNUNCIO

ANNUNCIO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.