Beatificazione

Albino Luciani beato: nell’umiltà il “sorriso di Dio”

Secondo San Giovanni Paolo II «la sua grandezza è inversamente proporzionale alla durata del suo pontificato». Karol Wojtyla parlava di Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, dal 4 settembre ufficialmente nella schiera dei Beati venerati dalla Chiesa Cattolica.

Chi era il nuovo Beato, quel “sorriso di Dio” che nei gesti e nel linguaggio ha precorso di 40 anni l’approccio di papa Francesco? Una semplicità rivoluzionaria che anticipò l’idea di un Pontefice non più “imperatore” custode geloso della “cristianità” ma prioritariamente “Vescovo di Roma”, pastore di un gregge smarrito nel mondo sempre più secolarizzato nel quale la Chiesa ha la responsabilità missionaria di vivere e far vivere con autenticità il desiderio di Cristo. 

Nato a Canale d’Agordo in provincia di Belluno, il 17 ottobre 1912 fu ordinato sacerdote nel 1931, diventando Vescovo della Diocesi di Vittorio Veneto nel 1958 e Patriarca di Venezia nel 1969. Partecipò ai lavori del Concilio Vaticano II e, dopo la morte di San Paolo VI, fu eletto papa dal collegio cardinalizio il 26 agosto del 1978 e occupò la Cattedra di Pietro fino al 29 settembre dello stesso anno. 

Sono poche le testimonianze ufficiali lasciate in quei 33 giorni, eppure sufficienti a coglierne la visione profetica che avrebbe poi, per diversi aspetti e con diversi accenti, caratterizzato i pontificati di San Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Papa Francesco. Proprio quest’ultimo, come detto, sembra riproporre nella gestualità, nella semplicità, nella radicalità evangelica del suo magistero quei tratti che fecero di Papa Luciani il “papa del sorriso”. 

Già nel radiomessaggio “Urbi et Orbi” del 27 agosto 1978 Giovanni Paolo I riprese l’idea della Chiesa missionaria che è stata la cifra del magistero di San Paolo VI per accentuarne la dimensione di madre misericordiosa, premurosa e accogliente. Ma come ebbe modo di affermare durante il suo primo Angelus del 10 settembre del 1978, anche Dio stesso è «soprattutto madre»; una visione profondamente radicata nella tradizione ebraica dell’Antico Testamento che tuttavia fu motivo di scandalo perché “irrituale”, “inattesa”, “fuori luogo”, come tante letture e interpretazioni che derivano da una originaria, e per questo nuovamente originale, interpretazione della novità rivoluzionaria del Vangelo. 

Albino Luciani racconta ancor oggi anche a noi il senso di quella fiduciosa speranza nell’eco che la vita della Chiesa solleva ogni giorno, vedendo in essa la testimonianza di una presenza «viva e intima» nel cuore degli uomini. Un messaggio che è rivolto anche a quelli che non condividono la sua verità e non accettano il suo messaggio proprio perché, come ha detto il Concilio Vaticano II, la Chiesa entra nella storia degli uomini per portare ad ogni uomo il lieto annuncio di salvezza, al di là dei tempi e dei confini dei popoli, negli inciampi delle debolezze umane e del peccato che pure ha coinvolto duramente la sua storia bimillenaria. In queste «tentazioni» e «tribolazioni» – precisava ancora Luciani – la Chiesa è sostenuta dalla forza della grazia di Dio, a lei promessa dal Signore, rinnovandosi «sotto l’azione dello Spirito Santo, finché, attraverso la croce, giunga alla luce che non conosce tramonto» (LG9).

Prendendo slancio da questa consapevolezza Giovanni Paolo I si propose di accompagnare la Chiesa nella prosecuzione dell’eredità del Concilio Vaticano II, per portare a compimento gli indirizzi dati alla Chiesa dal Concilio per garantire la concreta e autentica attuazione, evitando sia una eccessiva fuga in avanti «generosa forse ma improvvida» che, non rispettando i tempi di maturazione, ne travisi i contenuti e i significati, sia l’ostracismo di forze «frenanti e timide» che ne volevano (e vogliono) rallentare il «magnifico impulso di rinnovamento e di vita». Facile infatti vedere la profonda attualità, a distanza di più di quarant’anni, di queste tentazioni che ammalano ancora oggi il corpo ecclesiale.

Nelle parole di Giovanni Paolo I emerge quindi un manifesto essenziale e preciso che vede la Chiesa protagonista ad intra e ad extra proprio per rispondere con la forza missionaria all’azione oscurantista delle derive secolariste, dell’esclusione di Dio dalla storia del mondo e dalla storia dell’uomo che si traduce in odio, sangue e guerra e che minaccia talora di oscurare «l’alba di speranza» della quale la Chiesa è chiamata ad essere faro di luce. 

Giovanni Paolo I si inserisce con una “sapiente” continuità all’intero del magistero pre e post conciliare: il dovere dell’evangelizzazione con ogni mezzo per «studiare ogni via, cercare ogni mezzo, “opportune importune”, per seminare il Verbo, per proclamare il messaggio, per annunciare la salvezza», lo sforzo ecumenico «vegliando con fede immutata, con speranza invitta e con amore indeclinabile alla realizzazione del grande comando di Cristo: “Ut omnes unum sint”», il dialogo con il mondo «per la reciproca conoscenza, da uomini a uomini, anche con coloro che non condividono la nostra fede, sempre disposti a dar loro testimonianza della fede che è in noi, e della missione che il Cristo ci ha affidata, “ut credat mundus”» (Messaggio Urbi et Orbi del 27 agosto 1978).

Egli immaginava una Chiesa di prossimità, dove il ruolo del Pontefice fosse quello di mostrare la via della salvezza: «aiutare la gente a diventare più buona», con umiltà e fedeltà al Vangelo; scelse quindi di ancorare il suo approccio pastorale proprio a questi due capisaldi: «stare a posto davanti a Dio, davanti al prossimo e davanti a noi stessi» e «farsi prossimi dei più piccoli: i bambini, i malati, “perfino i peccatori”» (Udienza generale, 6 settembre 1978). 

Quell’umiltà che fu la cifra stessa del suo ministero episcopale a Vittorio Veneto prima e a Venezia poi: «Appena designato vescovo, ho pensato che il Signore venisse attuando anche con me un suo vecchio sistema: certe cose, scriverle non sul bronzo o sul marmo, ma addirittura sulla polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata o dispersa dal vento, risulti chiaro che il merito è tutto solo di Dio. Io sono la polvere; la insigne dignità episcopale e la diocesi di Vittorio Veneto sono belle cose che Dio si è degnato di scrivere su me; se un po’ di bene verrà fuori da questa scrittura, è chiaro fin da adesso che sarà tutto merito della grazia e della misericordia del Signore».

Ecco allora che una volta salito al Soglio di Pietro, Luciani ha voluto fare dell’umiltà (che era anche il motto del suo stemma episcopale) la strada dell’incontro con Dio. Una umiltà che deve guidare anche l’esperienza di fede ai nostri giorni, spesso tentata dall’accettare Cristo (in verità spesso ad uso e consumo delle proprie sensibilità) ma dal rifiutare tout court la Sua Chiesa. 

Come ribadito da papa Luciani nell’udienza generale del 13 settembre 1978 «Cristo e Chiesa sono una sola cosa. Cristo è il Capo, noi, Chiesa, siamo le sue membra. Non è possibile aver la fede, e dire io credo in Gesù, accetto Gesù ma non accetto la Chiesa»

Giovanni Paolo I già quarantaquattro anni fa aveva ben chiaro il contesto nel quale è chiamata a operare la Chiesa e aveva ben chiare anche le difficoltà della Chiesa stessa, tra peccati e divisioni. Eppure, allora come oggi, tutto va vissuto nella consapevolezza che – per dirla con papa Francesco – «l’unità è superiore al conflitto» (EG 226-230) e che quindi le divisioni non devono mai metterne in discussione la santità o l’impegno di ciascuno a rinnovarla dal di dentro.

Ecco perché la chiave del cammino, per ciascun uomo come per la Chiesa stessa, è l’umiltà. È nell’umiltà che prende corpo anche la Speranza che ci fa riconoscere le mancanze «in quanto danno occasione a Lui di mostrare la sua misericordia e a noi di restare umili e di capire e compatire le mancanze del prossimo» (Udienza generale del 20 settembre 1978).

Umiltà, prossimità, speranza, amore misericordioso sono questi i semi che il pontificato di Giovanni Paolo I ha lasciato lungo i solchi del cammino intrapreso dalla Chiesa e che hanno visto germogliare i frutti nel magistero dei suoi successori, trovando oggi in papa Francesco un’interprete che ne ha fatto proprio anche lo stile evangelico originale e originario che della semplicità, della gioia, della bellezza dell’annuncio vede incarnato lo spirito missionario affidato da Cristo alla Sua Chiesa.




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Vito Rizzo

Vito Rizzo è nato e vive ad Agropoli (SA). Avvocato e giornalista, autore e conduttore di programmi televisivi di informazione religiosa. È catechista, educatore di Azione Cattolica e direttore del Festival della Teologia “Incontri”. Oltre alla Laurea in Giurisprudenza all’Università “Federico II” di Napoli, ha conseguito la Laurea in Scienze Religiose presso l’ISSR “San Matteo” di Salerno e sta proseguendo gli studi teologici presso la Sezione “San Luigi” della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli. Tra le sue pubblicazioni “La Fabbrica del Talento”, Effedi editore (2012), con Milly Chiarelli “Caro Angioletto. Le preghiere con le parole dei bambini”, L’Argolibro editore (2014), con Rosa Cianciulli “Francesco. Animus Loci”, L’Argolibro editore (2018). Ha attivato un suo blog (vitorizzo.eu) su cui pubblica riflessioni e commenti e collabora alla rivista on line di tematiche familiari Punto Famiglia. Sempre con Editrice Punto Famiglia ha pubblicato “Carlo Acutis – l’apostolo dei Millennials”.

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