È il 3 luglio del 2016 Christian Scaiola, 21 anni, sta guidando il suo motorino con un amico a bordo. Stanno andando al bar del quartiere. All’improvviso un’auto davanti a loro fa un’inversione e Christian sbatte la testa contro il veicolo, in avanti, e poi indietro, contro il casco dell’amico. Intanto la mamma, Viviana, sente il suono delle sirene e comincia a messaggiarlo: “Se non rispondi subito, mi arrabbio”. Ma il figlio non poteva rispondere.
I medici che soccorrono Christian fanno tutto il necessario, lo rianimano, gli scoperchiano il cranio per permettere la decompressione dell’encefalo. Più tardi è tracheotomizzato, le secrezioni aspirate di continuo, l’ossigeno rimane sempre attaccato. La storia è raccontata da Lucia Bellaspiga su Avvenire e mentre leggo non posso non pensare alla mamma. È lei che fin dal primo momento è accanto a quel figlio, è lei che si arma di tanta forza e comincia a sperare contro ogni speranza.
Dopo alcuni anni all’ospedale san Gerardo di Monza, Christian viene trasferito al Garbagnate, una struttura socio-sanitaria dove è riabilitato tra i sub-acuti, sempre attaccato all’ossigeno e con la tracheotomia tenuta aperta per aspirare le secrezioni. Ma dopo sei mesi dicono alla madre che non c’è più nulla da fare e il figlio è trasferito al Palazzolo Don Gnocchi, nel nucleo per gli stati vegetativi. È la rinuncia a qualsiasi miglioramento. La rinuncia della medicina ma non della madre che riesce a cogliere i più piccoli movimenti del figlio. Dice a tutti che Christian gli stringe la mano ma nessuno le crede. Fino a quando spariscono le caramelle gommose che ha lasciato sul comodino accanto al letto del figlio.
Comincia un’altra fase. Al San Gerardo di Monza Christian riceve la sua calotta cranica e il Comune di Rho gli attribuisce una piccola casa con ascensore perché quella dove vivono prima ne era sprovvista. Così mamma Viviana avvera il suo sogno di riportarselo a casa. Sono passati sei anni dall’incidente. «Non era come lo vede oggi – sottolinea la madre –, era assente, non parlava da anni, faceva solo versi e movimenti inconsulti, pesava 45 chili. Ma invece di nutrirlo con la Peg gli frullavo il cibo e dopo qualche tempo non l’ho più nemmeno frullato, ormai mangiava di tutto… oggi pesa 80 chili e solo con i liquidi fatica ancora a deglutire, così beve con la cannuccia». Christian alza l’indice e parla, lentamente (ogni parola richiede impegno): «I miei piatti preferiti sono la pizza e i gamberoni alla piastra, poi le cotolette e la pasta al forno».
Una storia d’amore, una storia che in Italia si può ancora raccontare a differenza di altri Paesi Europei dove sarebbe prevalso il best interest e a Christian sarebbero stati staccati i supporti vitali. Una storia che dimostra come l’amore di una madre è capace di vedere oltre. E non so se qualcuno sia capace di dire a quella madre che ha lasciato il proprio lavoro, che si paga l’osteopata a sue spese, che cucina felice i manicaretti preferiti di Christian se la vita di quel figlio non è vita secondo gli standard del mondo.
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