Il Vangelo letto in famiglia

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C – 23 OTTOBRE 2022

Pubblicano o fariseo?

Gesù, attraverso la parabola, ci porta nell’ordinarietà del tempio, dove incontriamo un fariseo e un pubblicano, due personaggi che vivono in maniera opposta il proprio rapporto con Dio.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

IL COMMENTO

di don Gianluca Coppola

Il Vangelo della trentesima domenica del Tempo Ordinario ci mette di fronte a una triste verità: possiamo ritenere di essere credenti, possiamo ritenere di essere persone che hanno una fede robusta, e invece può succedere che stiamo addirittura praticando una “fede” che è contraria alla fede in Dio, che è l’opposto di quella sana relazione che dovremmo instaurare con Dio. San Francesco amava ripetere una frase che racchiude una verità incredibile: «Tu sei il creatore e io sono la creatura». Ecco, questo è l’ordine ancestrale di una fede vissuta in maniera sana. Perché Dio è il creatore, origine di ogni cosa, fonte della vita e di ogni bellezza, mentre noi siamo le creature. Le parole di San Francesco sono utili anche per interpretare al meglio la parabola presentata da Gesù in questo passo del Vangelo. In tale racconto, i termini dell’espressione francescana sono invertiti e la creatura cade, da un lato, nella sfiducia in sé stessa, dall’altro, nella tentazione di diventare dio di sé stessa. Ma la sfiducia, se affidata a Dio, può trasformarsi in salvezza, mentre la superbia non può che diventare perdizione.

Gesù, attraverso la parabola, ci porta nell’ordinarietà del tempio, dove incontriamo un fariseo e un pubblicano, due personaggi che vivono in maniera opposta il proprio rapporto con Dio. Gesù introduce la parabola sottolineando già la negatività di uno dei due, perché il suo racconto parlerà di «alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». La presunzione, purtroppo, è un atteggiamento deleterio in quanto impedisce al nostro cuore di aprirsi alla verità. Essa, infatti, è una strettissima parente del pregiudizio, e tutto ciò che è preconcetto, tutto ciò che un ordine prestabilito, fatta eccezione per quello che ci viene dettato dalla Sacra Scrittura e dal magistero della Chiesa, è sicuramente nemico di Dio. I due uomini della parabola partono entrambi da un pregiudizio. Il primo, ovvero il fariseo, sta ritto in piedi, assume cioè la posizione da preghiera tipica dei farisei; egli sta nella corretta posizione, è, globalmente, una persona giusta. Eppure, il problema risiede proprio nell’eccessiva consapevolezza della sua correttezza, che in questo modo rischia di trasformarsi nell’esatto opposto. Siamo davanti a una sorta di inflazione spirituale: molti, purtroppo, cadono in questo eccesso, e così facendo non riescono a esaminarsi nelle proprie componenti malvagie o sbagliate; talvolta, si tratta di un meccanismo di difesa che adottiamo per non soffrire, ma altre volte succede perché siamo realmente convinti di essere integerrimi e dunque non riusciamo a vedere le parti marce del nostro essere, non riusciamo ad ammetterle di fronte a Dio e tendiamo a sottolineare solo il bene che c’è in noi. Il fariseo, infatti, prega dicendo: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Questo atteggiamento, che purtroppo anche noi adottiamo troppo spesso nelle nostre preghiere, è il contrario della fede vera, è il contrario di ciò che Gesù stesso ci ha insegnato. Nella Lettera ai Filippesi si dice che Gesù «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini». Il fariseo si comporta in modo diametralmente opposto, sembra quasi fare un elenco delle cose belle che lo contraddistinguono, come se volesse presentare il conto a Dio. È evidente che nella sua preghiera non sta adorando Dio, ma sé stesso, utilizzando Dio. Qui giungiamo, purtroppo, alle dolenti note, perché questa è una prassi che troppo spesso si presenta anche nella nostra vita parrocchiale: le nostre preghiere, talvolta, diventano una sorta di autocelebrazione. «Maldetto l’uomo che confida nell’uomo», maledetto l’uomo che si fa dio di sé stesso. Questa è una cosa molto grave, utilizzare Dio per celebrare sé stessi, e ciò avviene molto più spesso di quanto pensiamo. Talvolta, anche nelle confessioni esordiamo con un “Padre, ma io che peccati faccio”. Sembra quasi che la confessione sia il mezzo per dimostrare al sacerdote che siamo belli, buoni e bravi, e che non avremmo assolutamente bisogno di quel sacramento, lo stiamo facendo solo per fare un favore a Dio.

Giungiamo finalmente al secondo personaggio della parabola, ovvero il pubblicano, che era un pubblico peccatore. Era una persona che aveva sbagliato sul piano religioso, forse sociale, una persona che sapeva di aver sbagliato e sarà proprio questa la sua salvezza. Anch’egli parte da un pregiudizio su sé stesso, dalla consapevolezza della propria negatività. La differenza, però, è che nella sua preghiera non parte da sé stesso, ma da Dio. La sua “negatività” lo porta ad aver bisogno di Dio. È proprio questo il punto: la fede è il bisogno insaziabile di un Dio senza il quale non possiamo fare nulla, di un Dio che apre le nostre vite alla possibilità della vita stessa, di un Dio senza il quale la vita non è vita. Possiamo anche pregare mille ore al giorno, pronunciare tremila parole una dietro l’altra spendendo le ore migliori, ma se non sentiamo il bisogno di Dio, se non lo riconosciamo come nostra salvezza, allora non abbiamo una fede vera, stiamo soltanto portando avanti una pratica religiosa. Il fariseo, infatti, torna a casa e nulla è cambiato per lui, resta fermo nelle sue convinzioni. Anzi, non ha alcun dubbio sulla propria fede, l’idea che la sua non sia una vera fede non gli sfiora nemmeno la mente. Il pubblicano, al contrario, fa un vero incontro con Dio, perché parte dal bisogno di Dio stesso, che viene soddisfatto attraverso la cosa più preziosa che Lui ci possa donare: la misericordia. Il pubblicano comprende che, nonostante sé stesso, Dio lo ama, lo accoglie, lo perdona. Auguro a tutti di poter fare l’esperienza di questo pubblicano, auguro a tutti di scoprire che abbiamo bisogno di Dio. Lui non è il palco su cui esibirsi o soddisfare sé stessi, Lui è l’amico grande e onnipotente, che ci accoglie, ci ama, ci salva e ci perdona.




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Gianluca Coppola

Gianluca Coppola (1982) è presbitero della Diocesi di Napoli. Ha la passione per i giovani e l’evangelizzazione. È stato ordinato sacerdote il 29 aprile 2012 dopo aver conseguito il baccellierato in Sacra Teologia nel giugno del 2011. Dopo il primo incarico da vicario parrocchiale nella Chiesa di Maria Santissima della Salute in Portici (NA), è attualmente parroco dell’Immacolata Concezione in Portici. Con Editrice Punto Famiglia ha pubblicato Dalla sopravvivenza alla vita. Lettere di un prete ai giovani sulle domande essenziali (2019) e Sono venuto a portare il fuoco sulla terra (2020).

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