CORRISPONDENZA FAMILIARE

Dinanzi alla morte per imparare a vivere

31 Ottobre 2022

Foto derivata da: Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Tra gli interrogativi che accompagnano la vita dell’uomo, quello sulla morte è certamente il più importante. E tuttavia, per quanto possa sembrare paradossale, proprio questa domanda così essenziale è stata censurata, messa sottochiave. Della morte non si parla. Punto. Non è un fenomeno recente, anche se oggi si afferma con la prepotenza di un assioma che non ha bisogno di essere dimostrato. Pensare che un giorno dobbiamo lasciare tutto insinua la tristezza, fa pensare alla vanità delle cose e mette nel cuore il dubbio sul valore del nostro impegno. 

La morte è il limite oggettivo e insuperabile della vita. Possiamo allungare i giorni ma non possiamo in alcun modo evitare la morte. Lo sappiamo e tuttavia… l’uomo non si rassegna a morire. Uno dei tanti paradossi che accompagnano il nostro vivere. Nel corso del ministero sacerdotale mi sono accorto quanto sia difficile, salvo poche eccezioni, nel tempo della malattia, dire ad una persona: “Preparati, sorella morte sta per venire!”. Anni fa rimasi colpito dal fatto che Ronald Reagan annunciò di essere affetto dal morbo di Alzheimer, una malattia che colpisce il sistema nervoso e causa la progressiva perdita delle funzioni cerebrali. L’anziano presidente degli USA non si limitò a dare un freddo comunicato ma volle dare personalmente la notizia lasciando a tutti un messaggio di fede e di speranza: “Comincio ora il viaggio che mi condurrà al declino della vita. Quando l’Onnipotente mi chiamerà, in qualsiasi momento, partirò con il più grande amore per il nostro Paese e un ottimismo eterno per il suo futuro”. 

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Oltre che coraggiosa, questa testimonianza fu molto significativa: in un tempo in cui la cultura della “dolce morte” sembra fare molti proseliti, oggi più ancora che ieri, Reagan riconosce che Dio è l’arbitro supremo della vita e della morte. In una cultura che elogia il suicidio quando la vita sembra non essere più degna di essere vissuta, il Presidente rimette ogni cosa nelle mani di Dio. Dinanzi alla morte la fede non teme di intonare un inno alla vita. 

La morte è l’unica cosa certa della vita! Come possiamo dunque vivere, come possiamo dare un senso pieno alla vita se non consideriamo la morte? Nessuno la esclude, nel senso di negarla; ma la poniamo tra parentesi, viviamo come se non dovessimo mai morire. Questo modo di pensare e di vivere è piuttosto irragionevole perché la domanda sul senso della vita non può trovare una risposta piena se manca la domanda sul significato della morte. Non è la stessa cosa dire che la morte è la fine di tutto oppure affermare che essa è solo un passaggio verso un oltre. 

Se la tomba è la definitiva dimora dell’uomo, se null’altro possiamo sperare se non di essere ricordati dai posteri, a che serve faticare e soffrire? 

Nella comunità di Corinto alcuni avanzano dubbi sulla verità della resurrezione, non quella di Cristo ma la nostra. Paolo interviene con durezza e afferma che negare la risurrezione dei morti significa negare anche la risurrezione di Cristo. E poi aggiunge con spietato realismo: “Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (1Cor 15, 32). È una forte provocazione quella dell’apostolo che vuole così scuotere la comunità e far capire il valore della posta in gioco. Se viene meno la certezza della risurrezione, crolla tutta l’impalcatura della fede. Resta solo una vuota religiosità che non può saziare il desiderio dell’uomo. Il Vangelo diventa soltanto un libro di umana saggezza che aiuta a vivere questa vita. 

Gesù invece promette ai discepoli che Lui è venuto per preparare un posto nell’eterna dimora (Gv 14,2). Ed è questa consolante certezza che ci permette di affrontare l’esistenza. Senza la certezza del Cielo, Zelia non avrebbe avuto la forza di sopportare tante fatiche. Nel cuore della giovinezza, quando tutto sorride alla vita, questa donna santa scrive al fratello: 

“No, è ancor meglio che io sia a penare dove sono e che essi siano qui. Purché giunga in Paradiso con il mio caro Luigi e che li veda là tutti meglio sistemati di me, sarò abbastanza felice: non domando di più” (Lettere Familiari, 23 dicembre 1866).

Grazie alla fede in Gesù Cristo la morte non appare più un evento che c’immerge nell’oscurità del nulla ma come l’ultima tappa della vita che ci fa entrare nella luce, non rappresenta più la fine di ogni cosa ma la pienezza e il compimento di ogni umana attesa. Un nuovo e definitivo inizio. 

A Gerusalemme un unico Santuario unisce il luogo della sepoltura di Gesù e quello della risurrezione. Quella che viene giustamente chiamata Basilica del Santo Sepolcro è nello stesso tempo anche la Basilica dell’Anastasis, cioè della Resurrezione. “Morte e Vita si sono affrontate / in un prodigioso duello. / Il Signore della vita era morto / ma ora, vivo, trionfa”. È questo il canto che risuona nel giorno di Pasqua. È questa la fede che dobbiamo coltivare e annunciare. È questa la speranza che fa della vita un faticoso e affascinante pellegrinaggio che trova il suo sigillo nell’abbraccio del Dio della vita e dell’amore. 




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Silvio Longobardi

Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera Inferiore-Sarno, è l’ispiratore del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus. Esperto di pastorale familiare, da più di trent’anni accompagna coppie di sposi a vivere in pienezza la loro vocazione. Autore di numerose pubblicazioni di spiritualità coniugale, cura per il magazine Punto Famiglia la rubrica “Corrispondenza familiare”.

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