Don Enrico Smaldone

“Ho tanti ragazzi, la roba serve a loro, non a me”: due ragazze ci raccontano don Enrico Smaldone

Don Enrico Smaldone

di Elisabetta Cafaro

Un giorno, un bambino bussò alla porta di don Enrico Smaldone: aveva solo degli stracci addosso. Lo accolse, col cuore colmo di compassione. Come quel bambino, però, ce n’erano tanti altri: la guerra aveva tolto loro tutto. Cosa fare? Da quell’incontro nacque il sogno della “Città dei ragazzi”, un luogo per restituire ai giovani i loro sogni… Oggi nel giorno del suo compleanno, il 22 novembre 1914, vogliamo ricordarlo attraverso le parole dei giovani da lui amati e serviti. 

I giovani credono ancora nei Santi e nella rivoluzione delle loro idee? Credono di non aver bisogno di nessun conto in banca per essere realizzati? 

Sembrerebbe follia a dirlo in un mondo intriso di materialismo, ma se immergiamo queste parole nel cielo divino scopriamo che quando la carità bussa alla porta dell’Amore, l’amore diventa la forza più grande che muove le pedine della storia. 

Allora vogliamo sognare con i Santi? Vogliamo rischiare l’avventura di lavorare nella Vigna del Signore senza paura e con la certezza che a Dio nulla è impossibile?

Fermiamoci sul ciglio della strada e respiriamo aria di speranza nelle parole di un piccolo prete di paese sconosciuto e animato solo dalla carità e da un sogno dopo aver visto un film …Sembra sentirlo mentre pronuncia queste parole tra sé e sé… “Non sognerò più io. Sono in cammino. Su questo cammino faticoso mi fermerò, quando il mio cuore non avrà più palpito di vita. Da anni avevo accarezzato in me l’idea di costruire una casa per salvare dalla corruzione della strada i fanciulli abbandonati, ma le difficoltà immense mi avevano sempre spaventato”. (Silvio Longobardi, “L’Audacia della carità”, pag. 29).

Don Enrico nacque ad Angri, un piccolo paese del salernitano ai piedi dei monti Lattari il 22 novembre del 1914. Il contesto storico era quello del dopoguerra che aveva lasciato morte e distruzione ovunque. Da questo triste contesto storico viene fuori l’idea di costruire una “Città dei Ragazzi”, per dare asilo a tanti fanciulli abbandonati dopo la morte prematura dei genitori.

La testimonianza del bene che don Enrico ha fatto è presente ed è viva, non solo nei tanti giovani da lui accolti e aiutati ad imparare un mestiere per poter avere un futuro dignitoso, ma soprattutto è viva la sua opera di amore e carità nella città di Angri, il suo popolo che mai manca di far memoria del suo insegnamento.

Antonia, 15 anni, definisce la sua opera una pagina di speranza, aperta sul futuro, una pagina di luce che ci aiuta ad aver fiduciosa nelle soluzioni divine, e ci fa comprendere che la fede non è un bene “comprabile” ma, come afferma sant’ Agostino: “La fede consiste nella volontà di chi crede”. 

I Santi sono il Vangelo vivente, con loro davvero scopriamo che amare l’altro è una missione meravigliosa. 

Paola 16 anni, si sofferma a ricordare l’episodio “scatenante”, la storia del piccolo orfano che bussò alla porta di don Enrico e che diede la spinta decisiva a quella che poi sarà l’opera di un popolo caritatevole come quello degli angresi e del suo piccolo prete sognatore.

Nasce la Città dei Ragazzi.

Paola è una studentessa del liceo Linguistico e Antonia è una studentessa del liceo Classico. Raccontano con l’audacia dei loro anni e la forza della loro giovinezza come non l’eroismo di un uomo ma la forza della fede e l’amore possono davvero costruire pagine di storia eterna.  

Antonia scrive: 

Caro don Enrico, da qualche parte ho letto che lo sguardo dei Giusti dal Cielo è sempre fisso su di noi, così le scrivo, sicura che potrà ricevere questa mia lettera, che ha il sapore del futuro, anche dopo aver vissuto un momento buio a causa della Pandemia. Il tempo che viviamo, avrebbe fatto soffrire anche lei, il suo fervente spirito e il suo grande cuore, che specie in questo momento, ci sostiene. Avrebbe di certo trovato una soluzione, aperto una strada o trovato del buono anche in un periodo di restrizioni come il nostro. È proprio ora che il suo insegnamento si fa più vivo, mentre cerchiamo una risposta a tutto questo e un consiglio sincero da un amico come… TE, don Enrico, semplice tra i semplici, giovane tra i giovani. Leggere della tua esperienza di vita ci conforta, poiché ci parli in modo chiaro attraverso l’esempio che hai saputo lasciarci: spendere la vita per gli altri, aiutare i ragazzi che sono la speranza e il domani, che va costruito su basi solide, sulla preghiera, sulla fede e con la leggerezza nell’animo di chi è certo di essere amato. Sono anni duri i nostri, conosciamo le divisioni, le discriminazioni, l’isolamento, ma sperimentiamo anche la forza, la solidarietà, l’amore di Dio. Abbiamo visto da vicino il mostro della paura, il rischio del contagio, la perdita dei nostri cari e un senso di impotenza senza fine, ma non abbiamo disperato, abbiamo creduto, abbiamo reagito. I sogni che hai fatto si sono realizzati, non senza fatica, e quelli che continui a fare su un mondo più equo, più giusto, più santo, non resteranno inattesi. Le linee che tracciamo in vita restano agli altri e se ne tracciamo di buone, possono rendere visibile l’opera di Dio: tu ce lo dici, la fede fa la differenza ogni giorno. Accompagna, don Enrico, i nostri piccoli sogni ed aiutaci a darci la forza di sognarne di grandi: imparare ad accogliere i popoli che chiedono aiuto e non lasciarli morire al confine, al freddo, o in mare; sostenere idee e progetti che pongano rimedio alla povertà, in aumento in questa Pandemia; lasciare andare individualismo e divisione, in favore di progetti comuni di rinascita; e non ultimo amare quello che facciamo ogni giorno, sempre. Nei piccoli gesti, nel dialogo con i giovani c’è il senso di tutta la tua vita e la via d’uscita a molti problemi dovuti all’indifferenza e all’egoismo. Questo nostro tempo è anche una grande opportunità per riflettere, per compiere quei piccoli atti eroici che tu compi ogni giorno e che hanno cambiato la vita di molti che non avrebbero avuto scelta altrimenti. Anche questo momento ci chiede di essere forti e di usare parole forti, di cambiare le prospettive, di scrivere pagine di storia nuova, di provare ad essere una comunità cristiana, autenticamente e soprattutto di essere coerenti. Sono sogni grandi, è vero, ma bisogna cominciare, tentare. E riuscire. La luce del sole che proviene dalla finestra, mentre ti scrivo, mi scalda in questo freddo pomeriggio di novembre, sicuramente, caro don Enrico, sei tu che, sorridendo, ci benedici.

Leggi anche: “Un raggio della santità di Dio” (puntofamiglia.net)

Paola scrive invece: 

L’incontro che diede vita a un sogno. Era una mattina del gennaio 1949, Don Enrico Smaldone, sacerdote della cittadina Angrese, si era da poco alzato, aveva svolto le sue faccende, indossato i suoi occhiali, la tonaca nera e stava dando un’occhiata fuori dalla piccola finestra, che si trovava a lato della sua vecchia scrivania, compagna di molte notti passate a scrivere, alla penombra di un piccolo lume, pensieri e lettere agli amici più cari. Spostò la tenda, sbirciò il cielo, l’aria era fredda, umida, dal sottile vetro si udiva il sibilare del vento, il cielo era nero, stracolmo di nuvole grigiastre, la pioggia scrosciava rapida e rumorosa e ai lati della strada s’eran formati rigagnoli d’acqua tanto da sembrare dei piccoli torrenti. Don Enrico dimenò le spalle, sfregò le fredde mani come si fa per riscaldarsi un po’ e dopo aver “riattizzato e a’ gravulenna rind a’ vraser”, posta sotto il tavolo in noce in cucina, si apprestava a prepararsi nu pucurill e cafè, rito quotidiano prima di cominciar la giornata. Quando all’improvviso… Tututumb, Tututumb, qualcuno stava picchiando insistentemente alla porta. Aprire quella porta fu per lui l’inizio di quel percorso, non sempre facile, che lo porterà alla realizzazione della sua opera più grande. Quello che gli si presentò davanti, possiamo dire che fu l’incipit che lo condusse a comprendere la missione che lo stesso Dio gli stava affidando. Davanti ai suoi occhi si palesò un bambino, un bambino di otto o nove anni, lacero, sporco, infreddolito e fradicio d’acqua. Dallo strappo sulla parte destra del pantalone, sicuramente di due taglie più grande, pressappoco all’altezza del ginocchio, si intravedeva una ferita che sicuramente doveva fargli non poco male. Portava ai piedi nudi un paio di scarpe grosse e rotte che non garantivano nessuna protezione. Sul volto i segni della sofferenza, i suoi occhi grandi e scuri nascondevano un rumoroso grido di aiuto, in grembo i morsi della fame. Dinanzi a quegli occhi, il cuore di Enrico si intristì e nello stesso momento nel suo sguardo si percepì la volontà di far qualcosa, di soccorrere quel povero fanciullo, tant’è che non esitò nemmeno un attimo, lo accolse in casa, come si accoglie un figlio, lo rifocillò con quel che doveva essere la sua colazione, un pezzo di pane e il caldo conforto di una tazzulella e cafè. Consolato, non solo dal calore di un focolare, ma anche dalla generosità di Enrico, il ragazzo si sentiva al sicuro, protetto, tanto da riuscire a raccontare la sua storia. Non era di Angri, abitava a Pagani, un paesino limitrofe, aveva perso la madre quando aveva tre anni e il padre era da tempo malato e ricoverato in ospedale, non aveva nessuno, non c’era nessuno che potesse occuparsi di lui. Don Enrico capì subito che aveva di fronte uno di quei tanti ragazzi che lui stesso definiva “un figlio della guerra, dalla bestemmia facile”, che in chiesa c’erano entrati sì e no un paio di volte e che vivevano di espedienti per poter sopravvivere. Erano ragazzi soli e senza nessun futuro. Con lo stesso atteggiamento di un papà, il sacerdote avvicinò con un piede il braciere posto sotto al tavolo, allo scopo di far asciugare un po’ quelle fradici vesti del ragazzo. Con un asciugamano, tirato fuori dal pesante e rumoroso tiretto del comò, gli asciugò i capelli, fu in quel frangente che Enrico appoggiò la sua mano, per una dolce e rassicurante carezza, sul capo del bimbo, come per dire… non ti preoccupare adesso ci sono io, mi prendo io cura di te. Il Bimbo ricambiò quel gesto con un riconoscente sorriso. Intanto, fuori smise di piovere, il cielo sembrava essersi rasserenato, ma non l’animo di Enrico, quello non riuscì proprio ad acquietarsi, anzi al saluto di quel bambino, che approfittò della momentanea schiarita per poter ritornare a Pagani, l’irrequietezza del prete diventò sempre più evidente. Rientrò in casa, chiuse la porta e il suo nervosismo si palesò anche nei suoi gesti. Iniziò a spostarsi da una parte all’altra del tavolo, si sedette su una sedia per poi alzarsi e sedersi su un’altra, il suo respiro divenne rapido e breve, come i suoi passi, camminò su e giù per la stanza, capo chino braccia giunte dietro la schiena, sguardo serio e accigliato e la mente …la mente piena di pensieri, dubbi e preoccupazioni. In lui fecero capolino mille domande, mille interrogativi. Come quel bambino ce n’erano tanti altri, la guerra aveva tolto loro tutto, una casa, il calore di una famiglia, un avvenire sicuro. Tra di loro c’erano sicuramente orfani, abbandonati o bambini provenienti da famiglie povere, e chi si sarebbe occupato di loro? Che ne sarebbe stato di loro e del loro futuro? Enrico non riusciva a togliersi dalla testa quegli occhi, gli occhi di quel ragazzino, grandi, neri, cupi e sofferenti, nella cui profondità si poteva udire quell’urlo intenso, trapelante di un gigantesco messaggio, un’assordante richiesta di aiuto, amore, speranza. L’animo di Enrico no, non riusciva proprio a restare indifferente a tal grido, non poteva restarsene a guardare senza far nulla, con le mani in mano. Per quei ragazzi bisognava subito fare qualcosa, bisognava far presto, sì, bisognava … ma cosa bisognava? Bisognava trovar loro un tetto, una famiglia, bisognava rispondere a quel disperato grido di aiuto, bisognava intervenire prima che il male lasciasse in loro tracce profonde ed insanabili. A quel punto, Don Enrico non ebbe un attimo di esitazione, Dio lo stava chiamando per affidargli i suoi figli più piccoli e lui con prontezza seppe rispondere “eccomi”. In quell’istante il suo sguardo si accese di un entusiasmo incontenibile e nel suo animo prese vita il suo sogno, che maturava già da tempo, un sogno chiamato “La Città dei Ragazzi”. Una città vera, da costruire con l’aiuto degli uomini e di Dio, dove poter crescere, studiare, apprendere le competenze che un domani sarebbero servite ad affrontare la vita, dove poter ridare a questi ragazzi impauriti, la speranza e l’amore che la guerra con prepotenza aveva portato via, dove poter creare affetti e legami, dove poter realizzare i propri sogni. I sogni dei ragazzi sono sacri e questo Don Enrico lo sapeva bene, tant’è che a partire da quella giornata uggiosa del gennaio 1949, fatta di freddo e tanta umanità, dedicò tutta la sua vita ai bisogni dei ragazzi e lo fece senza mai lamentarsi, senza mai disperarsi, senza nessuna discriminazione, con spirito di inclusione, lo fece con amore infinito fino al suo ultimo respiro. Nulla teneva per sé, ora era lui ad andar vestito con la tonaca rattoppata e le scarpe rotte, diceva: “Ho tanti ragazzi la roba serve a loro, non a me!”. “Lasciate che i fanciulli vengano a me”. Don Enrico seppe scorgere in questa esortazione evangelica l’importanza che avevano i ragazzi agli occhi di Dio, i piccoli che si trovavano ad esser agli inizi del loro percorso terreno. Un percorso che la società aveva e ha ancora oggi il dovere di rendere ricco di opportunità per la loro crescita e la loro dignità di uomini futuri. I ragazzi, come diceva sempre don Enrico, e che per molti sembra che oggi abbiano dimenticato… sono il futuro del mondo. 




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