CORRISPONDENZA FAMILIARE

La “piccola via” di Benedetto XVI

2 Gennaio 2023

Foto Papa Benedetto: Jeffrey Bruno / Shutterstock.com

Papa Joseph Ratzinger ha concluso la sua vita terrena. Oggi è presentato alla venerazione dei fedeli nella Basilica di san Pietro, proprio nel giorno in cui come Chiesa ricordiamo il 150º anniversario della nascita di santa Teresa di Gesù Bambino, dottore della Chiesa. Una bella coincidenza che ci invita a riflettere: cosa hanno in comune Ratzinger e Teresa? 

Signore, ti amo”: quando le agenzie hanno pubblicato le ultime parole pronunciate da Papa Benedetto, prima di entrare in coma, è stato inevitabile pensare a Teresa di Lisieux. Stando al resoconto puntuale della sorella Madre Agnese, testimone oculare di quegli istanti, poco prima di morire la Santa, stringendo tra le mani il Crocifisso, disse con un filo di voce: “Mon Dieu, je t’aime”, Mio Dio vi amo. Questa coincidenza permette di intrecciare oggi la vicenda del grande Papa con quella della piccola Teresa: un grande teologo che, malgrado le apparenze, cammina nei sentieri della piccolezza, una piccola monaca che diventa sempre più grande agli occhi degli uomini. 

Nella sua articolata riflessione Benedetto XVI ha fatto l’elogio della piccolezza, intesa non tanto come una virtù morale imparentata con l’umiltà ma come una dimensione teologica, cioè una caratteristica peculiare di quel Dio che assume la condizione umana e si presenta nella debolezza della carne. L’immagine che contempliamo nella liturgia natalizia. Ed è proprio in questo modo che egli rivela sua grandezza, come disse anni fa il cardinale Ratzinger in un’intervista concessa al giornalista Peter Seewald: “La teologia del piccolo è una categoria costitutiva della dimensione cristiana. La nostra fede prende le mosse in realtà dalla constatazione che la grandezza di Dio si rivela proprio nella debolezza. Essa suppone che, alla lunga, la forza della storia stia proprio negli uomini che amano, dunque in una forza che non può essere misurata con le categorie del potere” (J. Ratzinger, Il sale della terra, 22). 

In quell’intervista, pubblicata alla fine degli anni ’90, emerge una visione originale e profetica della vita ecclesiale. Ratzinger non coltivava idee di grandezza, anzi offre un giudizio che fotografa con acuta intelligenza la condizione della fede nel mondo contemporaneo:

“È probabile che davanti a noi ci sia un’epoca diversa della storia della Chiesa, un’epoca nuova in cui il cristianesimo verrà a trovarsi nella situazione di seme di senape, in gruppi di piccole dimensioni, apparentemente ininfluenti, che tuttavia vivono intensamente contro il male e portano nel mondo il bene, che lasciano spazio a Dio. Vedo che un grande movimento di questo genere è già in atto” (J. Ratzinger, Il sale della terra, Cinisello Balsamo 1997, 17-18). 

La crescente opposizione che il cristianesimo incontra nella cultura che oggi domina la vita sociale e politica, non suscita un grido di allarme né alimenta una teologia della rivendicazione e dello scontro. Al contrario, Ratzinger si dice convinto che attraverso questa via la Chiesa viene purificata, perde ogni ingenua e falsa idea di grandezza e torna ad essere un piccolo gregge, un piccolo seme gettato nella terra o un lievito nascosto nella farina, in piena fedeltà a quella parola che Gesù ha consegnato ai discepoli. È questa la premessa per ritrovare la forza di far germogliare una storia radicalmente nuova. Questa Chiesa, dice Ratzinger, non appartiene ad un futuro lontano ma è già presente. Invece di versare lacrime per un passato che non c’è più, conviene vivere il presente con fiducia e responsabilità. 

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Questo sguardo, rischiarato dalla fede, non impedisce di vedere le ombre che si annidano ovunque, anche all’interno del mondo ecclesiale, ma non cede alla tentazione di gridare alla catastrofe. Quanto più la Chiesa ritroverà la piccolezza tanto più potrà contrastare efficacemente, con la forza della testimonianza, quella cultura del potere e della forza che sempre più s’insinua nelle pieghe della società e nel rapporto tra le Nazioni. 

La piccolezza non è solo una categoria del pensiero teologico di Benedetto XVI ma appartiene al suo vissuto personale, diventa lo stile della sua vita. Scegliendo il sacerdozio consegna a Dio tutti i sogni della giovinezza, i sogni di una generazione uscita dalla guerra e perciò desiderosa di scrivere una storia nuova. Si fa piccolo come un bambino e vive in totale obbedienza a coloro che nella Chiesa esercitano l’autorità. Da quel momento non è lui a decidere cosa fare e dove andare, ogni scelta è sottoposta al proprio vescovo. L’obbedienza misura la libertà. 

La brillante capacità intellettiva lo conduce ben presto nelle aule accademiche, divenne un docente di teologia molto apprezzato e un conferenziere assai ricercato. E tuttavia, quando nel 1977 Paolo VI lo nomina vescovo di Monaco, dopo aver manifestato tutti i suoi dubbi e confessato i suoi limiti, accoglie la nuova vocazione in obbedienza. Il ministero episcopale gli dona autorità ma gli impedisce di continuare quel lavoro teologico che sente bruciare dentro di sé come un fuoco. Ancora una volta si fa piccolo, non segue l’istinto del cuore ma la voce della fede. 

Passano pochi anni, sulla cattedra di Pietro siede Giovanni Paolo II che, avendo conosciuto in prima persona l’importanza del lavoro accademico, chiama Ratzinger a guidare la prestigiosa Congregazione per la Dottrina della Fede. Lo aveva già fatto l’anno prima ma il Cardinale aveva rifiutato, ritenendo di non poter lasciare la diocesi così presto. Non può rifiutare una seconda volta. Accoglie in obbedienza la nuova chiamata, ricomincia daccapo. 

Avrebbe desiderato terminare il suo lungo ministero romano al compimento dei 75 anni. Ma Papa Wojtyla gli chiese di rimanere al suo fianco fino alla fine. E quando pensava di aver ormai concluso il suo servizio presso la Santa Sede, ecco la nomina più importante, quella che lo porta ad occupare il posto del Vicario di Cristo. Consapevole della grande responsabilità, la sera in cui appare dalla Loggia della Basilica si presenta come un “umile operaio della vigna del Signore”. Tutti gli altri titoli non contano, sono come polvere sulla bilancia. Ha accettato di svolgere il ministero petrino pur riconoscendo e ammettendo di non avere le attitudini necessarie. Lo ha fatto in obbedienza. 

E quando ha percepito di non avere più la forza per guidare la Chiesa, con l’umiltà dei piccoli si è fatto da parte. Questa rinuncia non è solo la cifra del suo pontificato ma è la chiave interpretativa di tutta la sua vita. Il segno espressivo di un’esistenza pensata e vissuta come servizio e dono di sé. Scegliendo la castità sacerdotale ha donato il suo corpo, esercitando la teologia ha messo la sua intelligenza a servizio della fede. Ha donato ogni cosa – tempo, energie e capacità – per dire a tutti che Dio è degno di essere amato e servito con totalità.

Ha fatto tutto e solo per amore di Gesù. Tra le tante catechesi che ha donato alla Chiesa, una è dedicata a Teresa di Lisieux. Commentando le ultime parole della Santa scrive: “sono la chiave di tutta la sua dottrina, della sua interpretazione del Vangelo. L’atto d’amore, espresso nel suo ultimo soffio, era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore” (Udienza generale, 6 aprile 2011). Mi pare una bella sintesi anche della sua vita. 

Grazie, Santo Padre, ora che vivi nella luce di Dio, prega per noi.




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Silvio Longobardi

Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera Inferiore-Sarno, è l’ispiratore del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus. Esperto di pastorale familiare, da più di trent’anni accompagna coppie di sposi a vivere in pienezza la loro vocazione. Autore di numerose pubblicazioni di spiritualità coniugale, cura per il magazine Punto Famiglia la rubrica “Corrispondenza familiare”.

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