“Siri è la mia migliore amica”: applicazioni che prendono il posto delle persone

4 Marzo 2023

smartphone

Chiedo alla mia studentessa chi sia Siri. Mi risponde che è un’applicazione del cellulare, ma in realtà rappresenta per lei molto di più: “Chiedo di tutto. Se sono giù di morale, posso chiedere anche di raccontarmi una storia divertente e lei comincia. È praticamente la mia migliore amica. La amo!”. Questa risposta, da insegnante, mi suscita alcune considerazioni… 

La domanda mi coglie di sorpresa. Dall’altra parte, una voce femminile, sufficientemente calda e rassicurante, risponde: “La radice quadrata di trentasei è sei”. Incuriosito, chiedo alla studentessa di quinto anno (che dovrebbe sapere sicuramente il valore della radice di almeno i primi 10 quadrati perfetti) cosa fosse quell’applicazione. 

La risposta è spiazzante: “È praticamente la mia migliore amica. Di sicuro mi aiuta nello studio!”. Scopro che quella voce risponde a praticamente tutte le domande, dalla data di nascita di Napoleone alla richiesta di farsi riassumere in un numero contato di parole la seconda guerra mondiale. Fantastico, penso. “E tu che uso ne fai?”: chiedo, incuriosito dal possibile risvolto pedagogico della vicenda. 

La risposta, stavolta, è preoccupante: “Chiedo di tutto. Se sono giù di morale, posso chiedere anche di raccontarmi una storia divertente e lei comincia. È, praticamente, la mia migliore amica. La amo!”. A quest’ultima dichiarazione mi frullano per la testa alcune considerazioni. Le scrivo qui alla rinfusa, così come mi vengono. 

La prima: se quella è la migliore amica, sempre disponibile, mai distratta, sempre performante, senza alti e bassi, cosa dovrà fare un’amica in carne ed ossa per esserle pari? La mia giovane studentessa accetterà più in futuro una relazione umana con qualcuno che sia meno capace di Siri? E un fidanzato? Cosa diventerà una relazione nell’epoca del tutto e subito digitale

Dalla cattedra, osservo e mi chiedo: come cambieranno le relazioni, anche amorose? E la scuola? Ci ricordiamo ad ogni piè sospinto che non serve più a dare nozioni. Ora più che mai, questo concetto diventa centrale. Le notizie saranno fornite da questa appendice digitale. Sovviene una vecchia (è proprio il caso di dirlo!) citazione di Umberto Eco secondo la quale la scuola non deve insegnare le notizie ma piuttosto dove andare a cercarle. 

Viene ancora oggi citata per raccomandare un cambiamento del paradigma didattico, con la non tanto sottintesa chiosa che la scuola deve indicare piste e non solo contenuti. 

Siri e le app simili superano anche questa frontiera. Non serve più sapere dove andare a chiedere. C’è già il posto! C’è già l’applicazione che fa per tutti. E allora, ecco la seconda domanda: a cosa serve la scuola? In questi giorni, Gianna Fregonara, in un articolo per il Corriere della Sera, discutendo di un nuovo chatbot (la ChatGPT, un software di intelligenza artificiale rilasciato a novembre che riesce a scrivere testi, a generare report, inventare poesie e risolvere problemi utilizzando la sterminata enciclopedia del Web) racconta di un allarme di esperti di didattica, professori e presidi. 

Si interrogano sulla validità dei compiti a casa, visto che li farà l’intelligenza artificiale. A dire il vero, dalla cattedra noto che in realtà ancora troppi docenti credono di poter e dover fare lezione all’antica, riproponendo il modo in cui hanno studiato loro. 

Leggi anche: Tecnologia: educare i figli facendo squadra tra genitori? I “patti digitali” e come stipularli (puntofamiglia.net)

Le cronache che provengono dall’altra parte dell’Oceano ci raccontano, infatti, che per ora l’applicazione viene semplicemente vietata allo scopo di prendere tempo e cercare di capire come muoversi. Qui arriva l’altra domanda a cui tutti ormai stiamo cercando di rispondere: a cosa serve oggi la scuola? Parliamo della scuola “classica” quella che già un po’ tutti stavamo cercando di superare, quella nozionistica, fatta di argomenti da ripetere a memoria alla cattedra durante l’interrogazione. 

Negli ultimi anni si è posto sempre maggiormente l’accento sulla competenza intesa come rielaborazione ed utilizzo di conoscenze ed abilità apprese (non solo a scuola) per affrontare l’imprevedibilità della quotidianità. Il rilascio di questa nuova possibilità digitale accelera tutto il processo quasi inaspettatamente e promette di cambiare l’antropologia percepita dell’essere umano. 

Ecco l’ulteriore domanda: questa escalation ci costringe ad andare a fondo di questioni che diamo per scontate. Ora è necessario chiedersi cosa sia l’umano. È questo il tema che dovrà affrontare la “nuova” scuola. Si corre il rischio, infatti, di continuare a proporre un modello di scuola che prepari gli studenti al mondo di ieri piuttosto che a quello nel quale vivranno. 

E tutto questo mentre, a tutt’oggi, in classe sono ancora vietati i dispositivi tecnologici che invece possono usare liberamente a tutte le ore (alcuni miei alunni si addormentano verso le tre di notte a seguito di un’attività non controllata in cameretta). Il paradosso che si viene a creare si presta ad una riflessione fuori schema. Visto che a casa gli accessi ai devices, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono controllati da adulti e che i giovani ne fanno un uso che solitamente mortifica le meravigliose possibilità che offrono dal punto di vista della conoscenza e dello sviluppo della personalità, non sarebbe il caso di permetterne l’uso a scuola sotto il controllo dell’adulto (il docente opportunamente formato e attento) e ridurne l’utilizzo a casa? 

Quanti docenti sarebbero d’accordo? E quanti tra genitori e ragazzi? Un cellulare è una straordinaria macchina che ognuno ha a diposizione purché ci sia un’adeguata formazione all’uso che se ne fa. Forse è arrivato il momento di cedere al cambiamento e passare ad uno studio informatizzato gestito attraverso i dispositivi. 

Fornire le categorie per un utilizzo consapevole della straordinaria tecnologia che si ha tra le mani potrebbe essere un primo passo per una “nuova” scuola. Siamo pronti? No. Vogliamo diventarlo? Non so. Ne abbiamo, come adulti, genitori e docenti, le capacità e la necessaria apertura mentale? Molti non se la sentono per ora, mentre alcuni rifiutano del tutto il solo pensiero. Così facendo, però, si rischia di relegare la scuola nella stanza delle cose del passato. Un museo di cose che in passato erano utili ma che ora sono superate. Conviene? 

Eppure, certe cose che possono essere “imparate” a scuola indipendentemente dal dispositivo tecnologico ci sono. Si tratta di andare a fondo, però. Scrivo dalla sala di attesa di un Conservatorio della Campania. Davanti a me tre giovani chitarristi si confrontano su un brano che presenta delle difficoltà di esecuzione. I tre sono contrariati anche dal fatto che, nell’esecuzione, dovrebbero dar conto della volontà dell’autore. In altre parole viene chiesto loro di interpretare il pensiero e i sentimenti, le vibrazioni emotive, la bellezza che ha provato a trasmettere l’autore vecchio di alcuni secoli. Dalle loro conversazioni si coglie come non capiscano che la differenza tra una fredda esecuzione di un software e la loro sta tutta qui. Loro sono umani e ciò si coglie proprio attraverso l’esecuzione che ne sanno dare in questo momento della loro esistenza, fondendo la bellezza del pezzo con il loro stato emotivo attuale, creando così un’esecuzione unica nella storia. Forse la scuola dovrebbe tendere a ciò. Tendere a scorgere l’umano in ogni disciplina attraverso la capacità di scorgere la bellezza esattamente là dove questa si nasconde. Ne parliamo già da alcuni anni. È arrivato il momento?




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Piero Del Bene

Sposo, padre, insegnante di matematica e scienze nella scuola secondaria di primo grado. Catechista e formatore. Dopo la laurea in Matematica ha conseguito il Master in scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Con la moglie Assunta si occupano di Pastorale Familiare.

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