
Che senso ha la sofferenza? La passione di Cristo nei versi di Rebora
4 Aprile 2023
Dio ci ha dato tutto, noi lo abbiamo ucciso e continuiamo a farlo con il peccato. Oggi, mentre si avvicina la commemorazione della Passione di Gesù nel Venerdì Santo, proponiamo una poesia di Clemente Rebora, in cui ci viene mostrato il Signore “spremuto” da un “torchio”. È l’amore folle di un Dio che dà tutto, fino all’ultima goccia del suo sangue.
Solo calcai il torchio:
con me non era nessuno:
calcarono su me tutti:
inebriato quasi spreco di sangue
in una rossa follia:
solo il torchio calcai:
liquido amore profuso
in estremo furore,
calcai il torchio, solo:
solo a torchiare,
solo a spremere il sangue mio:
tutto il mio Sangue sparso,
tutto in me già arso
dall’Immacolato Cuore di Maria:
invisibile ardore, quaggiù:
l’incomprensibile amore del Padre.
Gesù Gesù Gesù!
Dopo avere celebrato a modo nostro il Natale con alcuni brucianti versi di Clemente Rebora, torniamo a questo poeta per riflettere stavolta – vicini al Venerdì Santo – sul significato della sofferenza terrena. Come a dire, la passione alla luce della Passione.
Poeta vociano, autore tra il resto dei Frammenti lirici (1913) e dei Canti anonimi (1922), nasce da famiglia mazziniana il giorno dell’Epifania del 1885, convertendosi al cattolicesimo nel 1929, dopo un lungo percorso di avvicinamento alla Fede che lo conduce all’Istituto della Carità fondato dal Beato Antonio Rosmini, dove prende i voti nel 1936. Alla conversione seguono anni di silenzio poetico, essendo Rebora sempre più concentrato sull’unum necessarium della fedeltà a Dio: “La Parola zittì chiacchiere mie”, come avrà modo di confessare in un retrospettivo Curriculum vitae in versi. Solo negli anni Cinquanta riprende a comporre con piena intenzionalità poetica, incoraggiato dai Superiori e stimolato dal giovanissimo editore Vanni Scheiwiller, che ne pubblicherà infatti tutte le liriche. Il vertice dell’ultima produzione reboriana è nei Canti dell’infermità, sorta di diario poetico della lunga malattia che lo porterà alla morte il giorno di Ognissanti del 1957.
Leggi anche: “Digiuno pasquale” (puntofamiglia.net)
Proprio da questa raccolta è tratta la poesia che qui presentiamo, dove il poeta sacerdote richiama le tappe del “martirio” terreno di Gesù, volto – per la necessaria mediazione della Vergine – all’“incomprensibile amore del Padre”. L’immagine su cui si fonda la lirica deriva da un affresco del Bergognone sul tema biblico di Gesù premuto sotto il torchio (Isaia 63, 3), diffuso soprattutto in area fiamminga e visibile nella chiesa milanese dell’Incoronata, molto cara a Rebora. Nell’affresco la Croce è trasformata proprio in un torchio che comprime Gesù: come a dire che solo attraverso la Passione è possibile spremere il Sangue salvifico del Redentore.
In questi versi Rebora prende su di sé, come nota Alessandra Giappi, la figurazione del Cristus patiens, avvertendone una precisa e intensissima corrispondenza con la propria vita, percorsa in effetti da tanto dolore (la guerra di trincea, dove finì addirittura sotterrato per lo scoppio di un obice; un amore sentito come “tragico”, a causa di un aborto terapeutico a cui Rebora diede il suo consenso; un diffuso senso di non appartenenza al “mondo”). Ma non bisogna commettere l’errore di considerare questi versi solo autobiograficamente. L’immagine del torchio, con le relative applicazioni, va intesa infatti anche nel senso indicato da Jacopone da Todi in una sua famosa lauda: Dio ci ha dato tutto e noi lo abbiamo ucciso, e continuiamo a farlo con il peccato. Il torchio è dunque espiazione salutare e ineliminabile.
Efficacissimo, come sempre, lo stile reboriano. Tutta la lirica procede ininterrottamente dall’incipit sino alla ternaria invocazione finale Gesù Gesù Gesù! punteggiata da diverse ripetizioni che – come osserva Matteo Munaretto, il più acuto lettore dell’ultimo Rebora – sono eminente caratteristica del linguaggio mistico. Notevolissimo è l’uso sistematico dei due punti con valore dichiarativo, che producono uno slancio in cui non c’è spazio per effusioni sentimentali né per autoconsolatorie tenerezze. Semmai preparano il denso endecasillabo del v. 16, che costituisce il fondamento teologico della poesia.
Da notare infine il vocabolario, in cui spiccano due ambiti fondamentali: quello del torchio e derivati (di cui fa parte anche lo spremere del v. 11); e quello del sangue, che si dirama semanticamente nella serie rossa-arso-ardore, ma anche nel liquido amore del v. 7.
Si può concludere che, se in apparenza, questa Pasqua di Rebora può apparire persino brutale nel suo elogio della sofferenza, le cose stanno in realtà al contrario: è proprio perché l’inevitabile dolore umano ha un significato alla luce della fede, che esso può farsi strumento di salvezza, trasformandosi in un patire che sin dall’etimo corrisponde alla Passione.
Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia
Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
Lascia un commento