RISPETTO PER LA VITA

“Poteva abortire prima”: perché non piangiamo ogni vita spezzata, in grembo o fuori?

bambino embrione

(Foto: Mopic - Shutterstock.com)

Una volta, una ragazza mi ha detto: “Se lo Stato non mi permettesse di abortire, e io non mi sentissi pronta per diventare madre, procurerei l’aborto con le mie stesse mani. Mi prenderei a pugni la pancia, finché non sono certa di esserci riuscita”. Perché ci sorprendiamo se in questo clima profondamente anti-vita una donna arriva a eliminare un figlio anche appena nato?

“Poteva abortire prima”, dicono commentando il dramma di Parma, dove una donna ha sepolto in giardino un neonato, forse due. Eppure, una domanda dovrebbe sorgere spontanea: non avrebbe semplicemente ucciso prima e per vie legali lo stesso essere umano, già vivo, con un cuore pulsante, un patrimonio genetico tutto suo, un futuro da scoprire e tanti sogni da realizzare?

Nessuno sa, tranne lei stessa e Dio, cosa sia passato nella mente della ragazza.

Chi non dice nulla a nessuno di ciò che sta vivendo spesso lo fa per vergogna o per paura. Paura del giudizio, paura delle conseguenze. E isolati, o auto-isolati come in questo caso, si possono ascoltare perfino i pensieri più assurdi.

Siamo esseri relazionali: di fronte a problemi grandi, che ci tolgono lucidità, abbiamo bisogno di persone fidate. Famigliari, amici, sorelle e fratelli nella fede, specialisti.

Chissà se la ragazza si vergognava di essere incinta, nell’epoca del “i metodi per non rimanere incinta ci sono” (è ora che ce lo diciamo forte e chiaro: non sono infallibili!).

Chissà se non riusciva ad accettare la cosa e ha preferito nascondere perfino a sé stessa, finché ha potuto, che quella vita c’era e veniva a “scomodarla”. Sta di fatto che la società intera dice alle donne che possono far finta che non ci sia nessun figlio in pancia, se non lo vogliono. Una semplice operazione e sarà come se non lo avessi mai avuto. 

La maggior parte delle donne prende le misure che lo Stato consente tempestivamente (con l’aborto nei primi mesi di gestazione), qualcun’altra, come in questo caso, non lo fa. Forse impietrita? Forse incapace di prendersi le sue responsabilità? Forse per paura che l’aborto le farà male? Forse perché teme che il ragazzo o la famiglia possano metter bocca su una decisione che – la cultura docet – è solo sua?

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Ancora una volta: non lo sappiamo. Però sappiamo che la ragazza attende che la natura faccia il suo corso e poi uccide quel figlio perché ha deciso che non lo vuole (non è forse un suo diritto?). 

E invece di darlo in adozione lo “cancella”, lo seppellisce (non smettiamo di gridare dai tetti che esistono le culle per la vita, negli ospedali, dove si può lasciare, vivo, il proprio bambino se non si hanno le possibilità di crescerlo e non si vuole palesare la propria identità!).

Lascia sgomenti tutto questo. Come è possibile fingere normalità così bene? Guardare quel bambino, prenderlo e poi toglierli la vita?

Eppure, quante donne abortiscono senza che nessuno lo sappia? Quante donne hanno il coraggio di accettare che il cuore di un figlio smetta di battere per sempre?

La cultura ci insegna che un figlio, in fondo, conta nella misura in cui tu lo vuoi. Se non lo vuoi, puoi farne ciò che vuoi. Ecco perché poi la vita riprende come sempre, puoi andare in vacanza, tornare a studiare. 

No, a me non sorprende che questa ragazza abbia avuto il coraggio di uccidere suo figlio in un clima di estrema ostilità per la vita nascente. È l’estrema conseguenza della cultura fortemente abortista in cui ci troviamo.

Una volta, dialogavo con una ragazza su un social network. Spiegavo perché a mio avviso l’aborto ledeva dei diritti: quelli del nascituro.

La ragazza mi ha risposto: “Se lo Stato non mi permettesse di abortire, e io non mi sentissi pronta per diventare madre, procurerei l’aborto con le mie stesse mani. Mi prenderei a pugni la pancia, finché non sono certa di esserci riuscita”.

Abbiamo accettato che questa mentalità anti-vita si diffondesse a macchia d’olio. 

Abbiamo pianto di gioia, sotto alla Torre Eiffel, perché finalmente abbiamo un nuovo diritto.

Abbiamo dato dei bigotti a tutti quelli che nei consultori provano ad offrire delle alternative… 

E ora ci scandalizziamo perché una ragazza, seguendo questa mentalità, ha posto fine alla vita dei suoi figli?

Certo, uccidere dopo la nascita è illegale, l’aborto, invece, è legale.

Sicuramente bisogna avere del sangue freddo, che con l’aborto non è necessario (non vedi nulla).

Quei piccoli appena nati erano visibili, erano già cittadini del mondo, fuori dal grembo. È questo che ci scandalizza.

Se quei piccoli fossero stati abortiti nei primi tre mesi, come avviene a tanti figli non nati, quanti avrebbero pianto la loro morte?

Pochi. Perché la mentalità dominante ti dice: “Liberati di quel figlio se non lo vuoi”.

Chi è incallito sostenitore dell’aborto sempre e comunque, senza limitazioni di sorta, senza proposta di alternative, abbia la coerenza di dire, di fronte a questa tragedia, che questa mamma non ha fatto nulla di “male”: ha sbagliato solo i tempi e il luogo.




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Cecilia Galatolo

Cecilia Galatolo, nata ad Ancona il 17 aprile 1992, è sposata e madre di due bambini. Collabora con l'editore Mimep Docete. È autrice di vari libri, tra cui "Sei nato originale non vivere da fotocopia" (dedicato al Beato Carlo Acutis). In particolare, si occupa di raccontare attraverso dei romanzi le storie dei santi. L'ultimo è "Amando scoprirai la tua strada", in cui emerge la storia della futura beata Sandra Sabattini. Ricercatrice per il gruppo di ricerca internazionale Family and Media, collabora anche con il settimanale della Diocesi di Jesi, col portale Korazym e Radio Giovani Arcobaleno. Attualmente cura per Punto Famiglia una rubrica sulla sessualità innestata nella vocazione cristiana del matrimonio.

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