In queste feste natalizie, siamo stati invasi dai messaggi sui vari social. Per quanto mi riguarda ho una lista lunghissima a cui rispondere perché non mi piace mandare messaggi generalizzati. Di solito anche se devo rispondere solo grazie, mi piace aggiungere il nome del mio interlocutore. Per me è una forma di rispetto e di attenzione. Stavo riflettendo su questo modo di comunicare e mi sono detta che certamente ricorderò molto di più le persone incontrate anche solo pochi minuti per un augurio fugace. Perché alle parole si uniscono gli sguardi, le strette di mano, gli abbracci, il suono della voce. Sono elementi fondamentali della comunicazione. Anche una telefonata è diversa da un messaggio.
Qualche tempo fa ho letto che il 70% dei nipponici tra i 20 e i 30 anni ha la fobia di conversare al telefono: pesano educazione e rispetto della privacy altrui, ma anche la paura di non capire al meglio il non detto dell’interlocutore. Praticamente i giovani iper-connessi quotidianamente e con i telefonini sempre tra le mani rispondono poco e malvolentieri alle telefonate. Quando si tratta di cliccare sul tasto “rispondi” e iniziare una conversazione, preferiscono ignorarla e replicare con un messaggio scritto su WhatsApp o Telegram. Tutto, insomma, purché non si parli a voce con lo smartphone.
In Giappone il fenomeno è chiamato “muon sedai” che vuol dire la generazione silenziosa. E questo silenzio, a dirla tutta, mi preoccupa perché vedo che anche da noi sta mettendo piede. Non è il silenzio generativo e fecondo di chi attende e partorisce parole cariche di interiorità ed emotività ma un mutismo che isola sempre di più finendo per percepire l’altro come impiccio, fastidio, inutile perdita di tempo.
Questa avversione verso la voce disegna uno scenario molto inquietante che porterà ad un lutto comunicativo difficilmente sanabile. Ho paura di questa deriva e ho ancora più paura di quanti dicono che questo processo è inevitabile e nessuno può fermarlo. Ho paura di accettare che in una pizzeria o in un ristorante i giovanissimi sono a tavola insieme ma sembrano tutti degli zombie concentrati sui loro smartphone.
C’è qualcuno come me che sogna di andare in giro e di incontrare persone gentili e parlanti? Dobbiamo ridare alle parole il loro spazio. A partire dalle nostre case. Regole precise. No agli auguri fatti ad un figlio sui social, no ai messaggi uguali per tutti, no ad un messaggio vocale di lavoro quando il collega non lo senti da mesi, no a dire “ti amo” ad una persona solo e sempre con un messaggio. Se si perdono le parole e il loro suono diventeremo tutti dementi emotivamente. Ritorniamo ad essere uomini.
Il Caffè sospeso...
aneddoti, riflessioni e storie di amore gratuito …quasi sempre nascoste.
Il caffè sospeso è un’antica usanza a Napoli. C’è chi dice che risale alla Seconda Guerra Mondiale per aiutare chi non poteva permettersi nemmeno un caffè al bar e c’è chi dice che nasce dalle dispute al bar tra chi dovesse pagare. Al di là delle origini, il caffè sospeso resta un gesto di gratuità. Nella nuova rubrica che apre l’anno 2024, vorrei raccontare storie o suggerire riflessioni sull’amore gratuito e disinteressato. Quello nascosto, feriale, quotidiano che nessuno racconta, che non conquisterà mai le prime pagine dei giornali ma è quell’amore che sorregge il mondo, che è capace di rivoluzionare la società dal di dentro. Buon caffè sospeso a tutti!
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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
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