Chi sbaglia… impara. Carceri, tra pena e speranza

Le carceri sono davvero luoghi di riabilitazione o semplicemente gabbie in cui rinchiudere uomini e donne “pericolosi”? Le storie di ex-detenuti che, una volta usciti dalle mura di una cella, finiscono per ritrovarsi negli stessi circuiti che li hanno condotti alla condanna, sono all’ordine del giorno.

Per molti ex carcerati l’unica alternativa sembra essere il ritorno alla vita criminale. Tuttavia, esistono iniziative che vogliono provare a invertire questo trend: i murales di Alessandro Ciambrone, il ristorante dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere, il corso per pizzaioli di Secondigliano. Una speranza c’è.

Le percentuali variano a seconda degli studi e dei reati considerati, ma circa il 60-70% dei detenuti torna a delinquere. Il reinserimento sociale, infatti, si scontra non solo con la mancanza di lavoro e di alloggio, ma anche con la stigmatizzazione sociale e la difficoltà di superare le proprie problematiche personali, quali dipendenze e disturbi mentali. 

In questo contesto, non mancano però iniziative che cercano di offrire una via di uscita. La proposta di reintegrare i detenuti nella società attraverso l’educazione e il lavoro è un passo fondamentale. L’esempio dell’architetto writer Alessandro Ciambrone, che ha guidato i detenuti del carcere di Secondigliano nella realizzazione di murales nel 2021, rappresenta una delle sperimentazioni più belle, per me, in questa direzione. Il progetto, sostenuto dall’associazione «Il carcere possibile», ha avuto come obiettivo quello di portare arte e bellezza nei luoghi di sofferenza, risvegliando nelle coscienze dei detenuti la speranza di un riscatto sociale. Questo è stato solo l’inizio di una catena di murales realizzati anche in altri luoghi con lo stesso scopo, che trovano il suo culmine con il murale più grande del mondo che sorgerà sulla facciata della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta.

Un altro esempio interessante proviene proprio dal penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, dove si sta progettando l’apertura di un ristorante all’interno della struttura carceraria. I detenuti lavoreranno come cuochi e camerieri, acquisendo competenze professionali che potranno essere utili al momento dell’uscita, mentre nel frattempo guadagneranno uno stipendio che contribuirà a sostenere le loro famiglie. Si tratta di un’iniziativa che punta non solo a ridurre la recidiva, ma anche a innescare un circolo virtuoso, in cui ciascuno senta di poter ridare un senso al proprio tempo e alla propria vita.

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Se la situazione maschile è già complessa, quella femminile è ancora più articolata. La questione della maternità, spesso trascurata, diventa un tema centrale per le donne detenute. La mancanza di strutture idonee impedisce alle detenute di riscoprirsi madri e di affrontare un processo di reintegrazione che tenga conto delle specificità del loro ruolo. Inoltre, le donne in carcere sono generalmente protagoniste di crimini che non sono considerati di allarme sociale, ma che derivano da un contesto di forte precarietà economica e da un ambiente familiare problematico. La recidiva tra le donne tende a essere connessa a un modello di vita delittuoso, in cui il crimine diventa una risposta alla mancanza di opportunità. 

Il sociologo Didier Fassin, nel suo libro Prison Worlds, spiega bene come inasprire le pene non risolve la radice del problema, piuttosto alimenta un circolo vizioso che fa crescere l’incertezza sociale e aumenta la separazione tra chi è dentro e chi è fuori.

La necessaria reclusione non può e non deve diventare esclusione, perché la logica che la nostra Costituzione pone alla base dell’esistenza delle carceri non è che chi sbaglia paga, ma che chi sbaglia può imparare, evolversi, avere la possibilità di riconsiderare la propria vita. Un’opportunità per educare e reintegrare, costruendo percorsi che diano ai detenuti la possibilità di cambiare davvero.




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