Da qualche tempo, il farmaco Ozempic, nato per il trattamento del diabete di tipo 2, sta vivendo una popolarità crescente come soluzione rapida per dimagrire. Ne sento parlare tra i giovani e gli adulti in modo crescente tanto da indurmi a fare qualche ricerca e mi sono convinta che sia l’ennesima illusione pericolosa di una cultura che rischia di trasformare un supporto medico in un’altra tappa del culto dell’apparenza.
I dati parlano chiaro: secondo uno studio pubblicato su The New England Journal of Medicine, i pazienti trattati con semaglutide (principio attivo di Ozempic) hanno registrato una perdita di peso del 10-15% del loro peso corporeo in un anno. Ma a quale prezzo? Gli effetti collaterali non sono trascurabili: nausea, vomito, pancreatite e possibili problemi alla tiroide. Senza contare che, alla sospensione del farmaco, molti riprendono i chili persi.
Ciò che inquieta di più è il suo utilizzo da parte di persone che non soffrono di obesità patologica, ma cercano solo di perdere qualche chilo rapidamente. Viviamo in una società che ci impone standard estetici inarrivabili, alimentando insicurezze e spingendo sempre più persone a cercare scorciatoie per conformarsi a modelli irrealistici. Il mito del “corpo perfetto” ci priva della libertà di essere semplicemente noi stessi e, in troppi casi, si trasforma in un’ossessione capace di sacrificare la salute e la serenità.
Tutto questo è il frutto di un processo culturale che affonda le sue radici in un’idea pericolosa: la felicità si può ottenere con una pillola. Un concetto che ha preso piede qualche decennio fa con l’uso del Prozac come “pillola della felicità”, venduta come soluzione immediata al disagio esistenziale. Oggi, il paradigma si ripete con i farmaci per il controllo del peso, come se la serenità potesse essere iniettata nel corpo anziché coltivata con scelte di vita consapevoli e spesso faticose. Ma non esistono soluzioni facili alla complessità dell’essere umano. Ci vuole tempo, pazienza, fatica.
La felicità, diceva Giacomo Leopardi, è fatta di desideri e di limiti, di lotta e di accettazione. E forse aveva ragione anche Cesare Pavese quando scriveva che “l’unica gioia al mondo è cominciare”, ovvero abbracciare la propria strada senza cercare scorciatoie artificiali. La bellezza vera nasce dall’accettazione di sé, dal rispetto del proprio corpo, dalla consapevolezza che il valore di una persona non è misurabile in chili o centimetri.
Ora penso ai risvolti educativi di questo tipo di pensiero. Già i social hanno infuso l’idea che ciò che appare sulla piazza mediatica è solo ciò che conta, poi si spaccia un farmaco come possibilità immediata e senza fatica di raggiungere questa apparenza. Qual è il risultato? I nostri figli si convinceranno che essere magri significa essere felici? Che, se non si raggiungono certi parametri corporei che altri hanno stabilito si rischia l’espulsione da parte di quel mondo dell’apparenza dal quale vogliono essere ad ogni costo accettati? Un figlio che vede un genitore o un adulto percorrere questa strada con l’utilizzo di questo farmaco o anche nella ricerca affannosa di un corpo che magari a 40 o 50 anni non è più come quello di una persona di 20, cosa interiorizzerà?
Il Caffè sospeso...
aneddoti, riflessioni e storie di amore gratuito …quasi sempre nascoste.
Il caffè sospeso è un’antica usanza a Napoli. C’è chi dice che risale alla Seconda Guerra Mondiale per aiutare chi non poteva permettersi nemmeno un caffè al bar e c’è chi dice che nasce dalle dispute al bar tra chi dovesse pagare. Al di là delle origini, il caffè sospeso resta un gesto di gratuità. Nella nuova rubrica che apre l’anno 2024, vorrei raccontare storie o suggerire riflessioni sull’amore gratuito e disinteressato. Quello nascosto, feriale, quotidiano che nessuno racconta, che non conquisterà mai le prime pagine dei giornali ma è quell’amore che sorregge il mondo, che è capace di rivoluzionare la società dal di dentro. Buon caffè sospeso a tutti!
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