Non possiamo disporre di nessuna vita: l’eredità di san Giovanni Paolo II

Foto derivata da: JazzyJoeyD, CC BY-SA 4.0, da Wikimedia Commons

Di Giorgia Brambilla, Professore di Bioetica,  Ateneo Regina Apostolorum

L’Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II, che oggi compie esattamente trent’anni, ci richiama a riscoprire l’etica come riconoscimento della persona e della sua dignità. La parola “dignità” rimanda a qualcosa di “sacro”, cioè, sottratto alla disponibilità manipolatrice dell’uomo. Guardare l’altro in tutta la sua dignità significa farsene carico.

Risuona dopo trent’anni o forse fin dall’inizio della storia dell’umanità, nella coscienza di ogni uomo, per il fatto stesso di essere umano, quella domanda che racchiude la nostra identità costitutivamente relazionale, quella domanda che svela il nostro sguardo sulla realtà e sui nostri simili: sono forse io custode di mio fratello? (cfr. Gn 4,9)

Già, perché, in un tempo come il nostro, votato all’esaltazione del soggettivismo individualista, del solipsismo telematico, del consumismo relazionale, dell’assolutizzazione dell’autonomia e dell’esaltazione del desiderio come norma del vivere quotidiano, l’Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II oggi ci richiama proprio a riscoprire l’etica come riconoscimento della persona e della sua dignità. 

La parola “dignità” rimanda a qualcosa di “sacro”, cioè sottratto alla disponibilità manipolatrice dell’uomo. Guardare l’altro in tutta la sua dignità significa farsene carico, è la concreta responsabilità verso un’altra persona che nella “nudità indifesa del volto”, come direbbe Levinas, manifesta l’assolutezza di un imperativo. Lo sguardo dell’altro è carico di un’intenzione che precede la mia azione e la apre ad un senso, imponendole una responsabilità. 

Non dovrebbe essere questo il significato più profondo della libertà? Quella stessa libertà che, ci ha insegnato Evangelium Vitae, se ricondotta unicamente a una “libertà di”, cioè all’autodeterminazione, giunge a negare l’altro, tramutando la società in un insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, ma senza legami reciproci, fino al totale relativismo. Allora tutto è negoziabile: anche il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita (EV 20).

Se, infatti, la libertà non ha nessuna direzione e nessun criterio, i diritti possono tramutarsi in delitti. Abbiamo, infatti, ben presente le legislazioni di molti Paesi, magari allontanandosi dagli stessi principi basilari delle loro Costituzioni, abbiano acconsentito a non punire o addirittura a riconoscere la piena legittimità di tali pratiche contro la vita, tramutando scelte un tempo unanimemente considerate come delittuose e rifiutate dal comune senso morale, in socialmente rispettabili (EV 4). La stessa Medicina, che per sua vocazione è ordinata alla difesa e alla cura della vita umana, in alcuni suoi settori si presta sempre più largamente a realizzare questi atti contro la persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice sé stessa e avvilisce la dignità di quanti la esercitano. L’esito al quale si perviene è drammatico: se è quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell’eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana.

E come potrebbe non essere confusa la coscienza, di fronte a questa sorprendente contraddizione? Da un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell’uomo e le molteplici iniziative che ad esse si ispirano, dicono l’affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale; dall’altro, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa dell’affermazione e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto (EV 18).

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Dopo trent’anni, la voce del sangue versato dagli uomini non cessa di gridare, di generazione in generazione, assumendo toni e accenti diversi e sempre nuovi, al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l’intervento gratuito degli stessi operatori sanitari (EV 11).

Alla base di questa “cultura di morte” non ci si può fermare all’idea perversa di libertà già citata, bisogna andare al cuore del dramma vissuto dall’uomo contemporaneo: l’eclissi del senso di Dio e al tempo stesso di quello dell’uomo: smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire anche il senso dell’uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua volta, la sistematica violazione della legge morale, specie nella grave materia del rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio (EV 21).

Una “cultura della vita” ha oggi il compito di far scoprire il senso della finitezza umana, di ridirne la verità. Perché è dentro la finitezza che si manifesta la verità della vita e cioè che Dio partecipa della storia dell’uomo sia perché lo costituisce qui ed ora nella sua libertà, sia perché nell’Incarnazione si annuncia la chiave dell’interpretazione dell’esistenza. Una ricerca sistematica nel testo dell’Evangelium Vitae della parola “verità” e dei termini imparentati con essa ci mostra in modo palese che il Santo Padre pone la verità come un elemento essenziale della teoria e la pratica della cultura della vita. Ci parla del valore fondamentale della verità nella diffusione del Vangelo della vita, perché è soltanto attraverso un profondo compromesso con la verità che l’uomo riesce a scoprire e a diffondere il rispetto per l’umanità di ogni essere umano. Dice il Papa, tra altre cose, che l’apertura sincera alla verità è una condizione necessaria affinché all’uomo venga rivelato il valore sacro della vita umana (EV 2); che tutto il rapporto sociale autentico deve basarsi sulla verità (EV 57); che ora, più che mai, è necessario chiamare le cose per il suo nome, senza cedere alla tentazione dell’autoinganno (EV 58); che nella storia sono stati commessi crimini in nome della verità (EV 70); che la cultura nuova della vita è il frutto della cultura della verità e dell’amore (EV 77); che il lavoro dei costruttori della cultura della vita deve esprimere la verità compiuta sull’uomo e sulla vita (EV 95); che nei mezzi di comunicazione sociale deve essere rispettata una scrupolosa fedeltà alla verità (EV 98).

L’anniversario di questa meravigliosa Enciclica è veramente un richiamo al Popolo della vita, che oggi forse teme che quell’eclissi del valore della vita (EV 11) sia inesorabile, a non scoraggiarsi e a riprendere con gioia la missione di proteggere la vita, ognuno nel suo contesto, con la consapevolezza e il conforto di essere “mandati” (EV 79): essere al servizio della vita non è un vanto, ma un dovere, che nasce dalla coscienza di essere «il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere meravigliose» (1 Pt 2, 9).

Evangelium Vitae, con la radicalità decisa di chi chiarisce e, se necessario, corregge perchè ama, ci ha s-velato l’inalienabile valore della persona umana, creata a immagine di Dio, l’inviolabilità della sua vita e l’intangibilità del suo corpo, a scanso del riduzionismo relativista e del nichilismo di cui è permeato il razionalismo moderno. Ora spetta a noi annunciare il Vangelo della vita, celebrarlo nell’intera esistenza e servirlo con le diverse iniziative e strutture di sostegno e di promozione, affinché tutti sappiano che il Signore è venuto “perchè abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv10,10).




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Giorgia Brambilla

Giorgia Brambilla, sposata, tre figli, è Docente ordinario presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (APRA) e incaricato presso la Pontificia Università Lateranense, già Professore invitato all’Università “Sapienza” e Cultore della materia all’Università di Roma “Tor Vergata”. Ha conseguito il Dottorato in Bioetica, la Licenza in Teologia con specializzazione in Morale sessuale e famigliare, la Laurea in Scienze Religiose e la Laurea in Ostetricia. All’APRA svolge corsi di Teologia morale e di Bioetica da più di dieci anni, coordina il Corso di Laurea specialistica in Scienze Religiose (biennio pedagogico-didattico), è Consigliere dell’Istituto “Scienza e Fede” e Reviewer della rivista “Studia Bioethica”.
Collabora nell’ambito della formazione con varie associazioni cattoliche e prolife, svolgendo conferenze in tutta Italia. Scrive articoli di carattere bioetico per blog e riviste e cura le rubriche radio “Diario di Bioetica” (radioromalibera.org), “Preferisco il Paradiso: rubrica di Teologia morale” e “Il Telescopio. Lettura guidata di Fulton J. Sheen” (radiobuonconsiglio.it).
Tra i suoi lavori di ricerca più importanti: il manuale Sessualità, gender ed educazione (Edizioni Scientifiche Italiane, 2015), che è stato tradotto in inglese e in coreano, la monografia Uova d’oro. L’eugenetica, il grande affare della salute riproduttiva e la nuova bioschiavitù femminile (Editori Riuniti University Press, 2016), che è stato catalogato nella Biblioteca del Congresso di Washington e il recente Riscoprire la Bioetica: dai fatti ai fondamenti. Capire, formarsi, insegnare (Rubbettino, 2020).

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