CORRISPONDENZA FAMILIARE

Dinanzi al dolore muore la parola. Anche Dio tace?

7 Aprile 2025

Si avvicinano i giorni della Pasqua, i giorni della Beata Passione in cui contempliamo il mistero del Signore crocifisso per amore. Sono i giorni della luce, quelli in cui Dio svela il senso della vita e risponde alle domande che da sempre albergano nel cuore dell’uomo. Si giunge alla Pasqua attraverso la Croce, una verità semplice che spesso dimentichiamo. Un annuncio che contrasta con le nostre attese, ancora più in un tempo come il nostro in cui il dolore appare come un nemico da combattere con tutte le forze. Vale la pena aprire una riflessione su questo capitolo, il più importante e decisivo per dare senso e valore all’esistenza. In ogni tempo l’uomo si scontra con la sofferenza e con gli interrogativi drammatici che essa genera.

La sofferenza è uno dei dati più comuni e sconcertanti della vita umana, “sembra essere, ed è, quasi inseparabile dall’esistenza terrena dell’uomo”, scrive Giovanni Paolo II. Uno sguardo meno superficiale mostra che la vita non è priva, né mai può esserlo, di quelle esperienze che sono causa di sofferenza: le malattie, le delusioni, le inquietudini, l’insicurezza per il domani… a volte s’insinua il dubbio che nient’altro ci è dato se non la quotidiana fatica che poco alla volta consuma i nostri giorni, come confessa il salmista: “Tu ci nutri con pane di lacrime, ci fai bere lacrime in abbondanza” (Sal 80, 6). 

Quando parliamo di sofferenza pensiamo immediatamente a quella fisica, legata alle malattie. In realtà c’è anche – e spesso è più profonda e assai più difficile da gestire – quella che Giovanni Paolo II definisce “dolore dell’anima”. Tante persone vivono per anni nella solitudine, altre convivono con la malattia, altre ancora sperimentano il fallimento. Vi sono poi quelli che conoscono l’ansia e l’angoscia, anche nelle forme patologiche. Vi sono lacerazioni interiori che il tempo non riesce a rimarginare, amarezze che nessuno può cancellare. E come dimenticare quel particolare dolore che nasce dalla coscienza di aver commesso il male? Si potrebbe continuare a lungo. Il libro della sofferenza è composto di numerosi capitoli! Ognuno porta con sé un carico di dolore. La sofferenza diviene così una silenziosa e fedele compagna di viaggio. 

Si prova sempre un certo imbarazzo a parlare del dolore: abbiamo paura di cadere nella retorica e di affrontare in modo superficiale una condizione della vita che, non poche volte, presenta contorni drammatici. Il silenzio, soprattutto quando si tratta di parlare della sofferenza altrui, appare talvolta la reazione più dignitosa. Teresa di Lisieux sembra confermare questa legge non scritta. Pochi giorni prima di morire, a 24 anni, consumata dalla malattia, dice a Madre Agnese, la sorella che si prendeva cura di lei: “Madre mia, è facile scrivere belle cose sulla sofferenza, ma scrivere non è nulla, nulla. Bisogna esserci per sapere”. 

Santa Teresa ha ragione, dobbiamo parlare con estremo pudore della sofferenza. E tuttavia, avvolgere di silenzio questa esperienza contribuisce ad aumentare la solitudine dell’uomo e rende ancora più insolubili quelle ineludibili domande sul senso della vita che nascono quando il dolore mette radici nell’esistenza. I nuovi scenari aperti dallo sviluppo delle scienze e della tecnologia spalancano senza dubbio possibilità terapeutiche inimmaginabili nel recente passato che possono attenuare e perfino eliminare il dolore fisico, ma non sono in grado di rispondere alla domanda fondamentale che s’impone con evidente angoscia: perché l’uomo soffre? Non è uno dei tanti perché dell’esistenza ma quello con il quale prima o poi tutti dobbiamo fare i conti. 

Il dolore è il grande nemico, siede sul banco degli imputati. Per alcuni serve solo per individuare la presenza di un’eventuale malattia ed è sopportabile solo nel contesto di una terapia che permette di ritrovare la salute o comunque una condizione di vita accettabile. In tutti gli altri casi è inutile, anzi è spazzatura. Nella società contemporanea non c’è spazio per il dolore. Occorre eliminarlo. E se proprio non possiamo farlo, allora non resta che chiudere i conti con la vita. 

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Anche se non vuole ammetterlo, anche se lo nasconde dietro il grido della libertà di scelta, l’uomo contemporaneo, e in particolare l’uomo cresciuto nella società occidentale, ha paura del dolore. Una paura che nasce dall’incapacità di dare un senso alla sofferenza. L’unica cosa che appare ragionevole è quella di lottare contro la morte e ciò che conduce alla morte. L’uomo in rivolta, come suggerisce Albert Camus. Dinanzi al dolore, muore la parola. Anche Dio tace o almeno così appare all’uomo di oggi. 

Anche il credente si unisce al coro di questa cultura che rifiuta e respinge il dolore. “Dio non sa che farsene” del nostro dolore, ha scritto recentemente Enzo Bianchi. Eppure il salmista ci assicura che Dio raccoglie le nostre lacrime come un bene prezioso (Sal 56,9). Le pagine della Passione, che mediteremo nei giorni della Settimana Santa, annunciano che la redenzione dell’umanità passa attraverso la croce. Parole misteriose e scandalose, come scrive l’Apostolo Paolo: “Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1, 22-23).

Impossibile evitare il dolore. In tutta franchezza non riesco a immaginare una vita priva di sofferenza. Forse possiamo eliminare o ridurre la sofferenza fisica ma non possiamo evitare quella sofferenza che deriva dalle amarezze o dalle delusioni, dalle incomprensioni e dai tradimenti. È più ragionevole ammettere che i giorni della vita sono un misterioso intreccio di gioie e dolori. Chi cerca di evitare il dolore a tutti i costi, si troverà a disagio quando quel dolore, piaccia o no, busserà alla porta. Chi vuole tenere i figli lontani dai problemi non li educa ad affrontare con coraggio le difficoltà della vita, cerca di proteggerli, in realtà li rende ancora più vulnerabili e deboli. 

L’uomo fugge istintivamente dinanzi al dolore, è la legge della natura. Ma la fede rende capaci di vivere anche la sofferenza come via salutis, cioè un’esperienza che partecipa alla storia di Dio. La sofferenza appartiene al male e appare essa stessa come un male. Il cristianesimo annuncia che la Croce di Cristo ha spezzato l’intrinseco legame tra male e sofferenza ed ha mostrato che la sofferenza non è necessariamente un male e non genera inevitabilmente il male. Anzi, può diventare un bene e fonte di bene. 
La Croce non è più icona del male ma l’immagine più eloquente dell’amore che vince proprio quando appare sconfitto. I cristiani non contemplano un uomo in croce ma l’Uomo che ha fatto della croce un albero di vita. Quando il male si manifesta in tutta la sua violenza e in tutta la sua misteriosa iniquità, l’amore di Dio risplende in tutta la sua bellezza. Un amore che vince l’iniquità. In questa luce possiamo guardare in modo nuovo il dolore che accompagna i passi dell’uomo. È certamente una sfida per tutti ma è anche la parola che i cristiani dovrebbero far risuonare con maggiore convinzione per donare speranza.




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Silvio Longobardi

Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera Inferiore-Sarno, è l’ispiratore del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus. Esperto di pastorale familiare, da più di trent’anni accompagna coppie di sposi a vivere in pienezza la loro vocazione. Autore di numerose pubblicazioni di spiritualità coniugale, cura per il magazine Punto Famiglia la rubrica “Corrispondenza familiare”.

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