Quando il perdono non basta a salvarsi. Il gesto di Emanuele De Maria

Foto di Prawny da Pixabay

Era uscito dal carcere. Ma non era uscito dal dolore, né dal peccato. Lo chiamavano “detenuto modello”, ma un modello resta sempre una forma. L’anima, chi la guarda davvero? La storia di Emanuele De Maria, l’omicidio efferato che ha compiuto pochi giorni fa e il suicidio immediatamente successivo, ci lascia spogliati di parole, costretti a porci domande scomode che non possiamo evitare.

Dopo aver accoltellato un collega all’interno dell’hotel in cui lavorava, Emanuele De Maria ha ucciso Chamila Wijesuriyauna, barista, collega e amante. Subito dopo si è tolto la vita, lanciandosi dalle terrazze del Duomo. Una scena drammatica. Perché un uomo già condannato per omicidio stava lavorando in un albergo, in semilibertà? Cosa ci faceva De Maria fuori dal carcere di Bollate?

Emanuele stava scontando una pena definitiva a 15 anni per l’omicidio di Oumaima Racheb, una ragazza di 23 anni uccisa a coltellate nel 2016. Dopo quel delitto era fuggito all’estero, per poi essere arrestato nel 2018. In questi anni di detenzione a Bollate, il suo percorso viene descritto come esemplare: nessuna segnalazione, condotta impeccabile, partecipazione a percorsi formativi. Proprio per questo, dopo soli 5 anni di detenzione, aveva avuto accesso al cosiddetto “permesso di lavoro esterno”, previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Secondo il suo avvocato, De Maria “meritava quel permesso”, in virtù del “percorso di consapevolezza” intrapreso. Nessuno si sarebbe aspettato un simile gesto dal “detenuto modello”. Eppure, il pubblico ministero parla di omicidio premeditato

Il carcere può certamente contenere, può limitare, a volte anche educare ma il cammino dell’uomo non è mai solo una sequenza di comportamenti corretti, una serie di regole da rispettare. Siamo tutti capaci di adattarci all’ambiente, di indossare la maschera giusta e imparare a stare al gioco. Ma non basta. L’apparente rettitudine non è mai garanzia di conversione vera. È facile rispettare le regole. Talvolta è proprio il rispetto meccanico delle regole a diventare lo scudo perfetto dietro cui ci si nasconde. Le regole possono persino diventare pericolose, se slegate dal bene e dalla coscienza: basti pensare a come si sono giustificati alcuni dei peggiori criminali della storia, Eichmann e Göring, dichiarando di aver “soltanto eseguito degli ordini”. Ma la verità dell’uomo non si misura nella correttezza esteriore. Si misura nella sua capacità di interrogarsi, di mettersi a nudo, di guardare in faccia il male compiuto e il dolore provocato, senza rimuoverlo.

Chi, oggi, entra davvero in dialogo con l’anima dei detenuti? Chi osa toccare le corde più profonde del loro cuore, quelle che fanno male, quelle che ancora sanguinano o che si sono pietrificate? Chi restituisce loro non solo una seconda possibilità in termini giuridici, ma una possibilità vera di comprendere il senso della dignità delle loro vita e di quella degli altri? Con chi ha parlato Emanuele in questi pochissimi anni di detenzione? Quale miopia ha permesso di credere che un omicida dopo soli cinque anni potesse essere abilitato ad una simile libertà?

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Ogni cambiamento ha bisogno di tempo. Se una coppia vive un litigio importante, sappiamo bene di quanto tempo c’è bisogno per ricucire la frattura. Chi perde un figlio conosce lo scorrere del tempo che placa l’angoscia del vuoto. Secondo quale logica cinque anni possono essere sufficienti a ricucire lo strappo interiore di un uomo che ha deliberatamente scelto di uccidere? Il tempo della detenzione, non vuoto e abbandonato a se stesso, ma come occasione di incontro con chi si è veramente, ha un suo valore che non si può eliminare. 

Il cambiamento non è un “passare oltre”. È un processo lungo, doloroso, pieno di cadute, di confronti autentici e richiede tempo, senza sconti e senza scorciatoie. Il perdono non dimentica, non anestetizza, non dice “non importa”. Al contrario: importa eccome. È proprio perché importa, che possiamo essere perdonati. Un uomo che ha commesso un crimine gravissimo come quello di un omicidio non può trovarsi cinque anni dopo a lavorare in un hotel vicino alla Stazione di Milano. Si tratta una proposta di rieducazione che non ha memoria, che vuole più rispondere a degli standard ideologici che manifestare una vera attenzione alla storia di ciascuno. Riabilitarsi non vuol dire “tornare come prima” o assolvere da ogni colpa. Le ferite restano. E devono restare, perché sono ciò che ci ricorda chi siamo stati, e chi potremmo tornare ad essere, se dimenticassimo. 

Il caso di Emanuele De Maria non è un’eccezione. È l’urlo di un male non estirpato. “Nel cuore di ogni uomo c’è un vuoto che ha la forma di Dio” diceva Blaise Pascal. E quando quel vuoto non è riempito da Dio, diventa lo spazio in cui si annida il male, silenzioso, mimetizzato, paziente. Se non tocchiamo quel vuoto non ci sarà mai un vero cambiamento. Ci sarà solo un’illusione. E a volte, come in questo caso, quell’illusione può diventare una tragedia. Solo Dio può riempire il vuoto che resta quando tutto il resto fallisce.

Possiamo scrivere mille progetti di reinserimento. Possiamo parlare di pena che rieduca. Possiamo anche convincerci di avere fatto tutto il possibile. Ma finché non ci sarà qualcuno che tocchi davvero il cuore, che osi dire la verità, che accompagni nella libertà senza abbandonare, allora sì, il rischio sarà sempre lo stesso: che le celle si aprano, ma il male resti dentro. E colpisca di nuovo.




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