
CORRISPONDENZA FAMILIARE
L’indignazione a giorni alterni. La testimonianza della Chiesa
9 Giugno 2025

La violenza indigna. Non sempre. C’è violenza e violenza. Da 18 mesi gli israeliani denunciano il massacro del 7 ottobre. E noi con loro. Ma da 18 mesi stanno combattendo una vera e propria guerra che colpisce in gran parte la popolazione civile, inerme e nient’affatto complice dell’apparato terroristico di Hamas. Denunciare il male degli altri come ingiustificabile e giustificare il male fatto da noi come necessario, è storia di sempre. È la scusa più antica, quella che permette di uccidere senza fastidiosi scrupoli morali. Anzi con la certezza di compiere il proprio dovere.
Lo stesso meccanismo perverso si afferma nel conflitto che da tre anni insanguina l’Europa. Una guerra a senso unico, giustificata come necessaria difesa preventiva. Da più di tre anni i russi bombardano, seminano morte e distruzione, hanno invaso e occupato intere regioni, hanno costretto milioni di persone a lasciare le loro case… salvo poi denunciare come inammissibile la reazione militare dell’Ucraina.
L’indignazione a giorni alterni è ormai una regola della società civile, sempre più prigioniera di letture ideologiche che impediscono di custodire il “non uccidere” come regola assoluta della convivenza. Le vittime della violenza non sono tutte uguali. Quando a morire è un immigrato, scatta immediata la solidarietà di una parte. Quando a uccidere è un immigrato, si accende subito l’indignazione dell’altra parte. Ci stiamo abituando a guardare la realtà attraverso il filtro dell’ideologia e dell’appartenenza politica. Un grave danno per l’umanità.
Tutti sono bravi a denunciare la violenza della vita sociale ma pochissimi sanno riconoscere e chiamare con il proprio nome quella violenza, non meno brutale, che porta alla soppressione di un bambino quando cresce nel grembo materno. Abbandonare un neonato nel cassonetto o gettarlo in un prato suscita un giustificato orrore. L’aborto, invece, non scandalizza più nessuno, l’ideologia impedisce di vedere. E guai a dire che si tratta di un infanticidio… cioè l’uccisione deliberata di un bambino. In questo caso scatta il linciaggio mediatico.
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Papa Francesco ha parlato dell’aborto con quella libertà che possono avere solo gli uomini che non hanno paura di dire la verità: “il secolo scorso – ha detto Papa Bergoglio – tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi”. Faceva riferimento alla diagnosi prenatale e alla soppressione dei bambini malati.
Non aveva paura nemmeno Madre Teresa di Calcutta che, forte dell’autorità morale conquistata sul campo, poteva parlare con libertà a favore dei bambini non ancora nati. Lo sentiva come un dovere. Il carisma della carità, che la spingeva a difendere i più poveri dei poveri, la obbligava a denunciare l’aborto come una pericolosa perversione morale dell’umanità. Quando aveva l’opportunità di parlare alle grandi istituzioni del mondo civile, non usava alcuna diplomazia, anzi la sua denuncia diventava ancora più esplicita. Il 3 febbraio 1994, parlando al Congresso degli Stati Uniti, alla presenza del Presidente Clinton, disse: “Ogni nazione che accetta l’aborto non sta insegnando al proprio popolo ad amare, bensì a usare la violenza per raggiungere ciò che vuole”.
“Guai a me se non annuncio il Vangelo!”, scriveva duemila anni fa l’apostolo Paolo. Parafrasando queste parole, Madre Teresa potrebbe dire: “Guai a me se non annuncio che la carità riguarda ogni essere umano, in ogni sua condizione e in ogni fase della sua vita”. Madre Teresa ci ha ricordato che la Chiesa è Madre e come ogni madre accoglie tutti come figli, senza distinzioni e senza filtri ideologici. Una testimonianza che dobbiamo far risplendere se vogliamo restare umani.
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