CORRISPONDENZA FAMILIARE

Il fine vita e la vita senza fine. Senza Dio, il vuoto

16 Giugno 2025

La questione del fine vita è particolarmente complessa, come un mosaico composto di tanti tasselli. È un tema che Punto Famiglia ha già affrontato tante volte, cercando di sottolineare i diversi e complementari aspetti di una problematica che già da tempo, in Italia, divide la politica e la società. Un tema che non possiamo più ignorare né relegare nelle aule istituzionali o accademiche. La Chiesa ha il dovere di offrire una riflessione capace di parlare a tutti senza però dimenticare che la sua fondamentale missione è quella di nutrire la fede dei battezzati.

Papa Leone non teme di intervenire nel dibattito che riguarda il fine vita. Nei giorni scorsi, al termine dell’Udienza generale, nel salutare i pellegrini francesi ha consegnato loro queste parole:

“Il nostro mondo fatica a trovare un valore alla vita umana, anche nella sua ultima ora: lo Spirito del Signore illumini le nostre menti, affinché sappiamo difendere la dignità intrinseca di ogni persona umana” (4 giugno 2025). 

Parole che hanno un peso particolare perché nei giorni immediatamente precedenti (27 maggio 2025) i deputati dell’Assemblée Nationale avevano approvato in prima lettura una legge che riconosce il diritto a morire e precisa le condizioni per accedervi. L’intervento del Papa, ad urne ancora aperte, quando cioè la legge deve essere ancora approvata in via definitiva, mi pare un chiaro segnale a favore di una Chiesa che non rimane alla finestra, in attesa delle decisioni altrui, ma sceglie di fare la propria parte, anche quando sa di essere in minoranza. 

La Chiesa ha il dovere di offrire una riflessione capace di parlare a tutti senza però dimenticare che la sua fondamentale missione è quella di nutrire la fede dei battezzati. Il desiderio di parlare a tutti, credenti e non credenti, è certamente lodevole ma non deve anestetizzare la fede e congelare quelle motivazioni che, prima e più di tutte, hanno valore e danno valore all’impegno dei cattolici. 

Viviamo in una società che sacralizza il diritto al suicidio e nega il diritto a nascere. Un’evidente contraddizione ai nostri occhi ma perfettamente coerente con quella cultura che ha fatto dell’autodeterminazione il suo vessillo: in nome di questo primordiale e inalienabile diritto, possiamo decidere se accogliere o sopprimere la vita già concepita; e possiamo anche decidere di andare incontro alla morte quando siamo stanchi di vivere, senza dover rendere conto a nessuno e senza neppure dover dimostrare perché siamo stanchi. Il suicidio (assistito o meno) è la logica conseguenza di questo assioma antropologico: “La mia vita, il mio corpo, la mia morte appartengono a me. Punto!”.  

Dinanzi a questa deriva culturale, che ha messo solide radici tanto nella legislazione quanto nel vissuto della società occidentale, non possiamo limitarci a rispolverare una morale razionale quella che, cerca e pretende di individuare valori condivisi da tutti. Un tentativo usurato. Con raffinata ironia lo scrittore Paul Claudel diceva che fare di questa morale il cardine della vita sociale è come “appendere il cappello a un chiodo dipinto sul muro”. Senza Dio un’etica non regge. E tanto meno obbliga. 

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Agli occhi della fede la dignità che riconosciamo ad ogni uomo scaturisce dal fatto di vedere in lui un essere creato a “immagine di Dio”. Non è un tema teologico che può restare ai margini ma è la premessa necessaria per mettere in atto un’ampia strategia a difesa della persona, sempre e comunque, in ogni fase e in ogni condizione della vita. Se l’uomo è immagine di Dio, ogni volta che sopprimiamo la vita di un innocente e ogni volta che scegliamo o favoriamo il suicidio calpestiamo il volto di Dio, bestemmiamo il nome di Dio. Sono bene che questi non sono argomenti che hanno valore per quelli che non sono cattolici o per i cattolici che hanno dimenticato di esserlo. Ma quei cattolici che non hanno abbandonato la fede, quelli che continuano a fidarsi della Chiesa, hanno il diritto di essere istruiti nelle cose di Dio e di ricevere quelle motivazioni che possono vincere i dubbi, sostenere nella fatica e alimentare quel nuovo e più convinto impegno culturale tanto auspicato da Giovanni Paolo II.

Non possiamo parlare del fine vita senza annunciare la vita senza fine. Senza, cioè, ricordare che la nostra vita, quella di ogni uomo, non finisce quando i giorni sono consumati ma oltrepassa la soglia della morte. Se oltre l’orizzonte dei giorni non c’è altro, è difficile comprendere perché dobbiamo restare anni in una condizione che non risponde più alle nostre attese. Se questo tema viene oscurato o, peggio ancora, viene negato o risulta irricevibile, resta un vuoto che non può essere colmato dalle parole, anche quelle più belle e raffinate. 

Lo so, l’eternità ha un senso se parliamo di Dio, se rimettiamo Dio al centro della scena. Ma in fondo è questa, per noi cattolici, la provocazione che scaturisce dal dibattito sul suicidio assistito. Inseguire la politica sui suoi binari significa perdere l’occasione per dire una parola radicalmente diversa, quella che il mondo detesta e che, paradossalmente, forse attende. L’unica parola che può ragionevolmente modificare in modo significativo lo sguardo dell’uomo e dare un valore ai suoi giorni, anche a quelli meno appetibili e umanamente detestabili. 




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Silvio Longobardi

Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera Inferiore-Sarno, è l’ispiratore del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus. Esperto di pastorale familiare, da più di trent’anni accompagna coppie di sposi a vivere in pienezza la loro vocazione. Autore di numerose pubblicazioni di spiritualità coniugale, cura per il magazine Punto Famiglia la rubrica “Corrispondenza familiare”.

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