Per cinque giorni sono rimasta sola in casa. Nessuno che entrasse, nessuna voce oltre la mia. Una condizione sempre più rara nella vita di molti, oggi sommersa dal rumore di notifiche, chat, parole veloci. Eppure, questa parentesi di solitudine è stata per me rivelatrice. Un tempo che, a prima vista, potrebbe sembrare povero, vuoto. Ma che invece, nella sua nudità, ha svelato un volto profondo della nostra umanità: il bisogno insopprimibile della presenza dell’altro. E, insieme, il mistero del silenzio come luogo in cui Dio può parlare.
All’inizio, il silenzio pesa. Ti aggiri per casa e ogni oggetto tace. Nessuna risata, nessun “a dopo”, nessun piatto da sparecchiare per due. Il silenzio pare quasi ostile, ti obbliga ad ascoltare ciò che di solito copri con la fretta: i tuoi pensieri, il battito del cuore, una nostalgia indefinita. Ma già dopo il secondo giorno, ho iniziato a sentire che qualcosa cambiava. Non fuori, ma dentro. Come se in quell’assenza si stesse facendo strada una Presenza più grande. E mi sono ricordata di Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese che, anche nella minaccia della deportazione, scriveva nel suo diario parole disarmanti: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio”.
Essere soli, davvero soli, è uno dei più grandi timori dell’uomo moderno. Per questo viviamo sempre con qualcosa in sottofondo: una serie TV, la radio accesa, lo smartphone in mano. Ma la solitudine, se vissuta non come isolamento ma come occasione di ascolto, può diventare un varco. Una porta che si apre verso ciò che non controlliamo: l’altro, e Dio. Una sorgente, appunto.
Raïssa Maritain nella sua “Gratitudine” scrive con pudore e lucidità del vuoto lasciato dall’amata presenza di suo marito Jacques. Eppure, anche lì, nel dolore di quella mancanza, c’è un’apertura: “Nella notte più oscura, la certezza che Lui c’è – e che ci ama – resta”. La solitudine può insegnarci proprio questo: che l’amore è un bene così grande da farsi acutissimo dolore quando manca. E che ogni assenza, nella fede, è promessa di una Presenza più piena.
Dopo cinque giorni, quando ho sentito la chiave girare nella porta e una voce chiamarmi, ho avuto un sussulto. Non solo per la gioia del ritorno dell’altro, ma perché avevo toccato qualcosa di vero. Il valore infinito della presenza dello sposo, sì – ma anche la dignità della solitudine, vissuta non come abbandono, ma come incontro ancora più intimo con Dio.
Viviamo tempi in cui tutto grida, e spesso siamo soli anche in mezzo a una folla. Ma c’è una solitudine che non è tristezza, che non è egoismo: è un silenzio che prepara il cuore a ricevere. Come Maria, nel mistero dell’Annunciazione. Come i monaci nel deserto. Come ciascuno di noi, quando smette di correre e si lascia amare. Cinque giorni. Pochi, eppure bastano, se li vivi con occhi aperti. Mi hanno ricordato che senza l’altro non siamo nulla – ma anche che ogni giorno, ogni respiro, è un dono. In fondo alla solitudine, ci aspetta sempre una voce che ci chiama per nome.
Il Caffè sospeso...
aneddoti, riflessioni e storie di amore gratuito …quasi sempre nascoste.
Il caffè sospeso è un’antica usanza a Napoli. C’è chi dice che risale alla Seconda Guerra Mondiale per aiutare chi non poteva permettersi nemmeno un caffè al bar e c’è chi dice che nasce dalle dispute al bar tra chi dovesse pagare. Al di là delle origini, il caffè sospeso resta un gesto di gratuità. Nella nuova rubrica che apre l’anno 2024, vorrei raccontare storie o suggerire riflessioni sull’amore gratuito e disinteressato. Quello nascosto, feriale, quotidiano che nessuno racconta, che non conquisterà mai le prime pagine dei giornali ma è quell’amore che sorregge il mondo, che è capace di rivoluzionare la società dal di dentro. Buon caffè sospeso a tutti!
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