C’è una definizione nella meditazione di Papa Leone ai seminaristi lo scorso 24 giugno che merita di essere colta nella sua interezza e profondità: «Il seminario, in qualunque modalità sia pensato, dovrebbe essere una scuola degli affetti». Siamo abituati a pensare il seminario come luogo di studio, di discernimento, di preghiera. Ma definirlo scuola degli affetti significa coglierne una dimensione più profonda, più umana, e insieme più divina. Perché l’amore, quello vero, che si dona, che resta, che non si impone né si ritira, è l’anima di ogni vocazione.
«Non c’è niente di voi che debba essere scartato», ha detto il Papa ai seminaristi. Troppe volte, in un certo passato, si è pensato che la formazione passasse anche per una sorta di amputazione del cuore, quasi che per amare Dio si dovesse smettere di sentire. Ma è il contrario. Dio non chiede cuori anestetizzati, ma cuori vivi, cuori di carne per usare un’espressione biblica. L’affettività non va repressa: va educata, trasfigurata. Va portata alla luce e offerta, come il pane e il vino, perché diventi Eucaristia, vita donata.
Una persona affettivamente risolta è una persona che conosce il proprio cuore, lo ascolta, ne custodisce le ferite e lascia che Dio vi abiti. Un cuore allenato a discernere, che sa leggere i propri sentimenti senza farsi travolgere dalle emozioni. Un cuore semplice, libero, vero. Non è una conquista psicologica: è un cammino spirituale. La psicologia può sostenere, aiutare a comprendere, ma la verità del cuore è affare della grazia.
Il Papa ha parlato ai seminaristi, ma le sue parole risuonano per tutta la Chiesa. Perché l’urgenza di educare all’affettività non è limitata ai futuri sacerdoti. Riguarda anche i fidanzati, i giovani, le famiglie. Nei percorsi di preparazione al matrimonio spesso ci si scontra con adulti mai diventati veramente adulti nel cuore, uomini e donne incapaci di dire “per sempre” perché nessuno ha mai insegnato loro cosa significhi amare davvero.
È dunque una sfida formativa, ma anche culturale e spirituale. In un mondo in cui tutto è fluido e consumabile, imparare ad amare come Cristo — con cuore di uomo — significa riscoprire che l’amore ha un peso, ha una fedeltà, ha una forma. Non si improvvisa. E non può essere ridotto a emozione o a desiderio. Per questo il Papa ha insistito tanto sul cuore. Un cuore da abitare, non da fuggire. Un cuore da conoscere, non da mascherare. «Dio ci parla nel cuore», ha detto. Ma per ascoltarlo bisogna fare silenzio, rientrare in sé stessi, accettare anche le zone d’ombra, le paure, i limiti.
Il seminario come scuola degli affetti, allora, non è un’intuizione poetica. È una strada concreta, necessaria, esigente. È la formazione di un cuore capace di tenerezza e di verità, di compassione e di fermezza. Un cuore che non cerca di piacere, ma di servire. Che non domina, ma accompagna. Un cuore, dice il Papa, unto dallo Spirito, non solo prima dell’ordinazione, ma ogni giorno.
La cultura che ci circonda spesso confonde l’affetto con il possesso, l’amore con l’ego. Per questo la Chiesa è chiamata oggi, più che mai, a essere madre: capace di generare uomini e donne liberi, affettivamente maturi, che sappiano amare senza dipendere, donarsi senza annullarsi. È questa la bellezza che ancora può attrarre: un cuore pacificato, autentico, trasparente. Ecco perché il seminario deve essere — come ha detto Papa Leone — non solo luogo di studio, ma luogo di umanizzazione. Non solo fucina di teologi, ma scuola di uomini. Perché solo chi è pienamente uomo può essere, nel profondo, pastore.
In fondo, tutto converge in un’unica, semplice, vertiginosa chiamata: amare come Cristo ha amato. Questa è la radice della vocazione sacerdotale. Questa è la meta della formazione. E questa è, in fondo, anche la vocazione di ogni cristiano. Allora sì, grazie, Santo Padre. Grazie per averci ricordato che il cuore è il luogo dove Dio ci parla. Che educare agli affetti non è una questione secondaria, ma la prima vera palestra della fede. Che non si può essere pastori — né padri, né madri — senza un cuore aperto, umile, guarito. Perché solo da un cuore ferito e risorto può nascere un amore che salva.
Il Caffè sospeso...
aneddoti, riflessioni e storie di amore gratuito …quasi sempre nascoste.
Il caffè sospeso è un’antica usanza a Napoli. C’è chi dice che risale alla Seconda Guerra Mondiale per aiutare chi non poteva permettersi nemmeno un caffè al bar e c’è chi dice che nasce dalle dispute al bar tra chi dovesse pagare. Al di là delle origini, il caffè sospeso resta un gesto di gratuità. Nella nuova rubrica che apre l’anno 2024, vorrei raccontare storie o suggerire riflessioni sull’amore gratuito e disinteressato. Quello nascosto, feriale, quotidiano che nessuno racconta, che non conquisterà mai le prime pagine dei giornali ma è quell’amore che sorregge il mondo, che è capace di rivoluzionare la società dal di dentro. Buon caffè sospeso a tutti!
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