L’Italia è un Paese in via di sparizione. Lo dicono i dati, lo conferma l’esperienza: culle vuote, scuole che chiudono, paesi desertificati. Non è catastrofismo, è realtà. Eppure, nel dibattito pubblico, la questione della denatalità rimane una voce laterale, quasi una nota a piè di pagina. Quando se ne parla, ci si divide: c’è chi invoca politiche fiscali più eque, chi punta il dito sulla cultura individualista, chi — giustamente — denuncia l’aborto come uno scandalo rimosso dalla coscienza collettiva.
La verità è che tutti questi livelli sono veri, ma nessuno da solo è risolutivo. La denatalità non è solo una questione di numeri, ma il sintomo di una malattia più profonda: la perdita di senso della generazione. Per troppo tempo abbiamo presentato la maternità e la paternità come un’opzione tra le tante, un accessorio realizzabile “quando tutto è a posto”. I figli, così, non sono più percepiti come dono, ma come compito gravoso o addirittura minaccia alla realizzazione personale.
Come ricorda San Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae: “Il figlio non è un nemico da temere, ma un dono da accogliere”. Se non ripartiamo da qui — da un’educazione al valore della vita — nessun incentivo fiscale potrà invertire la rotta. Dobbiamo tornare a dire che avere figli è bello, sensato, possibile, e che ogni figlio porta con sé un pezzo di futuro.
È però miope chi riduce il problema alla “cultura” senza guardare alle condizioni materiali. In Italia, fare un figlio significa spesso scegliere tra lavoro e famiglia, tra carriera e cura. Il costo privato di un figlio è altissimo, mentre il beneficio sociale viene ignorato. Ecco allora una proposta concreta: da anni si discute di introdurre un vero quoziente familiare, come avviene in Francia. Non si tratta solo di bonus spot, ma di riformare il sistema fiscale in modo che tenga conto del numero dei figli nella tassazione del reddito. Ogni figlio è un bene comune, ma oggi è trattato come un peso individuale. Nello stesso tempo è urgente ridare dignità al lavoro femminile e materno, sostenere chi sceglie la cura con flessibilità e tutele, ripensare l’intero modello di welfare con una visione “generativa”, non meramente assistenziale.
C’è poi una ferita che continuiamo a ignorare: l’aborto non è estraneo alla crisi demografica, ne è parte costitutiva. Ogni anno in Italia decine di migliaia di bambini vengono soppressi legalmente. Possiamo parlare di natalità senza parlare di loro? Francesco D’Agostino scriveva che “una società che accetta l’aborto come diritto non può che vivere la maternità come minaccia”. Ecco perché ogni discorso sulla vita che non tocca questa piaga è destinato a restare incompleto. Ma attenzione: la questione dell’aborto non è solo etica, è anche antropologica. Dove non c’è posto per il più piccolo, non ci sarà posto nemmeno per l’anziano, il malato, il disoccupato. Una società che abortisce i figli, abortisce anche il futuro.
La crisi della natalità si supera solo con una conversione integrale dello sguardo. Non bastano riforme, servono politiche orientate dalla verità sull’uomo: che siamo fatti per amarci, per donarci, per generare. E questo vale per lo Stato, per la scuola, per i media e — soprattutto — per la Chiesa. Abbiamo bisogno di comunità che testimonino la gioia di generare, famiglie numerose che non siano viste come eccezioni folcloristiche ma come il segno che vivere diversamente è possibile. Credo che su questo aspetto i movimenti ecclesiali abbiano molto da dire e testimoniare.
San Giovanni Paolo II ci lascia un mandato profetico: “Una nazione che uccide i suoi figli è una nazione senza futuro”. Ma è anche vero il contrario: una nazione che accoglie i suoi figli è una nazione che sceglie la speranza. Dunque, dov’è il centro della questione? Sta nel tornare ad amare la vita, in tutte le sue fasi. Sta nel dire — senza paura — che i figli non sono un diritto, ma nemmeno un lusso: sono il volto concreto della speranza, il sacramento vivente della fiducia. E senza speranza e senza fiducia, nessuna civiltà sopravvive.
Il Caffè sospeso...
aneddoti, riflessioni e storie di amore gratuito …quasi sempre nascoste.
Il caffè sospeso è un’antica usanza a Napoli. C’è chi dice che risale alla Seconda Guerra Mondiale per aiutare chi non poteva permettersi nemmeno un caffè al bar e c’è chi dice che nasce dalle dispute al bar tra chi dovesse pagare. Al di là delle origini, il caffè sospeso resta un gesto di gratuità. Nella nuova rubrica che apre l’anno 2024, vorrei raccontare storie o suggerire riflessioni sull’amore gratuito e disinteressato. Quello nascosto, feriale, quotidiano che nessuno racconta, che non conquisterà mai le prime pagine dei giornali ma è quell’amore che sorregge il mondo, che è capace di rivoluzionare la società dal di dentro. Buon caffè sospeso a tutti!
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