CORRISPONDENZA FAMILIARE

Don Matteo, una giovinezza ancora acerba e la necessità di amici veri

14 Luglio 2025

Una vicenda dolorosa, quella di don Matteo, giovane prete che si è tolto la vita. Una vicenda che invita tutti a riflettere, c’è un disagio nascosto che poco alla volta prende forma, pensieri che si insediano negli spazi più intimi e fanno sanguinare, ombre che si addensano e tolgono il respiro, giudizi carichi di negatività che soffocano i sogni di una giovinezza ancora acerba… nessuno sa quel che avviene nei sentieri più reconditi della coscienza, lì dove ciascuno rimane solo con sé stesso. E quando fa i conti con la sua vita ha l’impressione che ci sia un deficit, una voragine che nessun amore può colmare. E sceglie l’impensabile…

“Conoscere la nostra propria miseria non è così scoraggiante”, scriveva Raissa Maritain nel suo Diario. A condizione di conoscerla “sotto lo sguardo misericordioso di Dio”. Quanto più siamo persuasi di essere poca cosa tanto più impariamo a riporre in Dio ogni nostra speranza. Impariamo a dipendere in tutto da Dio. Un’esperienza che David Maria Turoldo ha saputo esprimere con la sua poesia raffinata e penetrante come una lama:

“Un chiostro è il mio cuore / ove tu scendi a sera / io e te soli / a prolungare il colloquio, ora / sopra una panchina / di pietra. / O per scoprire come / amore ancora ti spinge, / in silenzio ascolto / il fruscio / dei tuoi passi / e il suono della voce / che chiama…/ E non fuggo per nascondere / dietro gli alberi / la mia nudità: / orgoglioso d’essere / questo nulla / da te amato” (Un chiostro, in O sensi miei …, Milano 1997, 516).

Questa coscienza di fede non s’improvvisa, è il frutto maturo di un cammino che non possiamo fare da soli. Un cammino che inizia durante gli anni del seminario e continua lungo i sentieri spesso tortuosi della vita. In questo cammino le relazioni affettive non sono solo importanti ma decisive, cioè capaci di consolare nelle delusioni, rialzare nella fatica e imprimere la giusta direzione.

La relazione con Dio, anzitutto. Con il Dio dell’amore che, come scrive Teresa di Lisieux, dona a tutti la stessa luce, alla rosa e al più piccolo fiorellino, anche a quello che appare più sgraziato ai nostri occhi. Il legame con Dio è l’albero maestro della nave, quello che ci custodisce nelle tempeste della vita. La coscienza di essere amati e accompagnati, qualunque siano le circostanze della vita è fondamentale. Nell’omelia esequiale di don Matteo, Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, ha ricordato “l’importanza e l’urgenza di rimettere al centro la cura dell’anima”. Una verità tanto scontata quanto trascurata perché “nelle nostre vite siamo troppo spesso distratti da altre priorità, da cose superficiali che ci distraggono da quelle importanti”. Non è solo il punto di partenza ma il centro focale dei pensieri e degli affetti.

A partire da Dio e nella luce di Dio appaiono tutti gli altri legami. Non parlo genericamente del rapporto che ogni prete costruisce con la comunità affidata alle sue cure. Faccio riferimento agli amici e compagni di viaggio, a quelle persone con le quali è possibile costruire un’amicizia e una condivisione capaci di rispondere degnamente al bisogno affettivo che dimora in ogni uomo. Nel rapporto con la comunità il prete è chiamato costantemente a dimenticare sé stesso per donarsi a tutti con totalità di cuore. Tutto questo non basta, anzi può diventare un piacevole inganno. Pensiamo di avere una comunità e poi, nei momenti più faticosi, sperimentiamo un’insopportabile solitudine.

Un prete ha bisogno di amici veri, quelli con cui può comunicare e condividere la sua vita e le sue paure, quello che lo esalta e quello che lo deprime… tutto quello che fa parte della nostra fragile umanità. Questi amici li può trovare tra coloro che condividono la sua vocazione ma anche, e soprattutto, tra gli sposi. L’amicizia con le famiglie è una delle chiavi per custodire la vocazione sacerdotale. Un tema su cui conviene ritornare.

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Quando parliamo delle relazioni, non dobbiamo dimenticare quella che lega il presbitero al suo vescovo. Il ministero sacerdotale ci impegna a esercitare la paternità, l’amicizia ci aiuta a vivere come fratelli. Resta la dimensione filiale. Un uomo nasce come figlio e resta per sempre figlio, ha bisogno di sentirsi figlio. La relazione con il vescovo non può essere vissuta solo nel solco dell’obbedienza ma deve essere nutrita di affetto. Anche i vescovi, per riprendere le parole di Brambilla, rischiano di essere “distratti da altre priorità” e trascurare di manifestare e coltivare una reale paternità con i preti affidati alle loro cure.

Un sacerdote ha bisogno di sentirsi accompagnato dal suo Vescovo. Specie negli anni della giovinezza, quando la vocazione deve ancora prendere forma. Ha bisogno di sentire (sentire è diverso da sapere) la stima, la fiducia e l’incoraggiamento del vescovo. Il suo vescovo. La coscienza di essere figlio è fondamentale per strutturare la personalità del presbitero ed è la premessa per vivere la paternità. “Dobbiamo imparare a non nasconderci di fronte alle nostre paure e fatiche”, ha detto il vescovo di Novara nella liturgia esequiale. Ha ragione ma solo la coscienza di essere un figlio amato, vince la paura e allontana la tentazione di nascondersi.

La tragica morte di don Matteo ha suscitato domande scomode e ha aperto un capitolo che non dobbiamo avere fretta di chiudere. Non abbiamo risposte esaustive e forse neppure dobbiamo cercarle. In fondo il sacerdozio cattolico resta un grande mistero che trova la sua intima ragione in quella luce che un giorno ha trafitto il cuore e trova la sua forza nel Pane eucaristico che ogni giorno ci nutre e ci sostiene. Se tutto parte e riparte da Lui, ogni altro legame affettivo deve ricordare e ricondurre a Colui che è all’origine di questa straordinaria avventura.




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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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Silvio Longobardi

Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera Inferiore-Sarno, è l’ispiratore del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus. Esperto di pastorale familiare, da più di trent’anni accompagna coppie di sposi a vivere in pienezza la loro vocazione. Autore di numerose pubblicazioni di spiritualità coniugale, cura per il magazine Punto Famiglia la rubrica “Corrispondenza familiare”.

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