CORRISPONDENZA FAMILIARE

di don Silvio Longobardi

Per amore del mio popolo, non tacerò. La pazienza e il coraggio

27 Aprile 2020

La Chiesa ha atteso pazientemente, ha voluto evitare uno strappo istituzionale nel contesto di una pandemia che richiedeva un clima di concordia nazionale al fine di combattere un nemico comune. Ora è il momento di aprire un dialogo serio in cui la Chiesa ricorda non solo di avere dei diritti, che non possono essere impunemente calpestati; ma anche dei doveri nei confronti del suo popolo, un popolo che soffre per la mancanza di beni che non sono marginali.

Nessuno può negare che i Vescovi italiani hanno esercitato la virtù della pazienza. Fin troppo, dicono i più scettici. Come me. Scettici nei confronti di un Potere che cerca a tutti i costi di arginare e, se possibile, rendere irrilevante il ruolo del cristianesimo nella vita sociale. La pazienza è una virtù, esprime la forza d’animo di chi sa attendere i tempi dell’altro per amore o per quella comune responsabilità nei confronti di una ampia comunità di persone. La pazienza, però, anche quella più sincera, può sconfinare nell’arrendevolezza fino al punto da diventare icona di don Abbondio, il prete che non s’immischia negli affari dei potenti perché ritiene di non avere il coraggio necessario. 

Una parte numericamente non marginale del mondo cattolico – faccio parte di questa categoria – ha avuto l’amara sensazione che i vertici della CEI avessero ceduto con eccessiva remissività alle pressioni di un Governo che ha chiuso ogni confronto istituzionale e, stando alle indiscrezioni dei beni informati, avrebbe addirittura accarezzato l’idea di chiudere tutte le chiese, come se fossero semplici negozi commerciali di cui uno Stato può disporre l’apertura e la chiusura, a norma di legge. Un intervento da regime comunista, per intenderci. Qualcosa che abbiamo già visto nella storia del Novecento e che purtroppo ancora si vede in alcuni Paesi. Diciamolo senza falsa diplomazia: non c’è stato alcun confronto, in realtà il Governo ha imposto imperiosamente la sua posizione, chiudendo le porte ad ogni trattativa. In queste condizioni poteva apparire una vittoria riuscire a stoppare le truppe politiche che accusano la Chiesa Cattolica di essere la principale causa dell’arretratezza morale e culturale del nostro Paese. 

La Chiesa ha dunque atteso pazientemente, ha voluto evitare uno strappo istituzionale nel contesto di una pandemia che richiedeva un clima di concordia nazionale al fine di combattere un nemico comune. Ha fatto prevalere la coscienza della responsabilità civile sulle evidenti e improrogabili necessità spirituali della comunità ecclesiale. Ha cercato di fare la sua parte sia attraverso la testimonianza personale di medici e volontari e sia attraverso un maggior impegno delle proprie istituzioni caritative che, in tempo di pace, rappresentano talvolta le uniche antenne di solidarietà presenti nella vita sociale. 

In un’epoca in cui tutti fanno a gara ad occupare la scena per vanagloria o per guadagnare consenso – in primis i rappresentanti istituzionali della politica che, mai come in questo tempo, hanno sentito la tentazione seducente del potere – la Chiesa ha scelto di avere una presenza pubblica sobria, mai conflittuale né rivendicativa. Invece di puntare il dito, come avrebbe potuto e dovuto fare, ha voluto sempre tendere la mano, anche quando è stata umiliata da un Potere che non ha mai preso seriamente in considerazione le ragioni del mondo cattolico, fino al punto da decidere quali erano le figure ministeriali che avrebbero potuto partecipare alla Celebrazione liturgica durante i giorni della Settimana Santa. A pensarci bene, una cosa non solo inedita ma anche inaudita dal punto di vista giuridico. 

Fedele alla sua storia, la Chiesa si è mostrata sempre disponibile al confronto costruttivo. Una scelta nobile che non è stata ricambiata da parte di un Governo che evidentemente ha preso gusto ad esercitare l’autorità ben oltre i limiti consentiti dalla Costituzione e dagli accordi concordatari. Dinanzi a questa plateale mancanza di rispetto istituzionale, intriso di protervia politica, la Chiesa ha detto basta. Lo ha fatto nella maniera più esplicita e brutale. In primo luogo, accusando il Governo di aver escluso “arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo”. Quell’avverbio vale più di tante parole e dei più sofisticati ragionamenti, in ambito giuridico e politico indica un esercizio autoritario del potere. In altre parole, siamo dinanzi ad una palese ingiustizia. In secondo luogo, la Chiesa ricorda al Governo di non essere un ufficio dello Stato e di godere di piena autonomia. Anche queste parole non sono scelte a caso. L’accordo concordatario che regola i rapporti tra Chiesa e Stato certifica che la Chiesa è un soggetto autonomo e come tale deve essere considerato. Antonio de Curtis, in arte Totò, avrebbe sentenziato: ’Cca nisciuno è fesso! Sono parole che nella vita quotidiana valgono molto più di quelle raffinatezze che usano scrivere giuristi e politici. 

Inizia dunque la seconda fase. Nella prima abbiamo steso i mantelli per far passare più comodamente sua Maestà, il Potere. Ora è il momento di aprire un dialogo serio in cui la Chiesa ricorda non solo di avere dei diritti, che non possono essere impunemente calpestati; ma anche dei doveri nei confronti del suo popolo, un popolo che soffre per la mancanza di beni che non sono marginali ma rappresentano la sostanza del nostro vivere. Su questo punto la Nota della Presidenza CEI è quanto mai precisa ed evidenzia qual è la posta in gioco: “I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. 

La Chiesa oggi rivendica la libertà di culto – proprio quello che da due mesi una parte del mondo cattolico ha scritto fino alla noia, esponendosi così al fuoco amico dei campioni dell’obbedienza – e chiede di poter vivere quella fede che non nasce dalla buona volontà ma dalla grazia che Dio dona con abbondanza attraverso i segni sacramentali. Più chiaro di così… Un messaggio, quest’ultimo rivolto più ai cattolici che ai politici, al fine di scongiurare quella deriva caritativa che aveva già messo salde radici nella comunità ecclesiale e che ha trovato nuovo ossigeno proprio in questo tempo di pandemia in cui sembrava che, dinanzi all’ambulanza sanitaria, tutti avevano il dovere di fermarsi, anche e soprattutto la Chiesa. Non importa se l’azione liturgica poteva essere esercita nel pieno rispetto delle norme sanitarie. 

“Per amore di Sion non tacerò”, dice il Profeta. La Chiesa non vuole essere una cittadella fortificata, si sente parte di una storia comune, è pronta a farsi carico delle sofferenze di tutti. Ma non può rinunciare alla sua missione né può tradire la sua identità. Fino ad oggi ha vinto l’autoritarismo, è giunto il momento di aprire un confronto vero e rispettoso. Un confronto che non riguarda soltanto i vertici e non deve svolgersi solo nelle stanze ovattate dei Palazzi. Siamo tutti chiamati in gioco. È una partita importante da cui dipendono le sorti del cattolicesimo in Italia. E non solo. È tempo di rialzare la testa. Facciamo sentire a tutti che siamo un popolo.




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO

ANNUNCIO

4 risposte su “Per amore del mio popolo, non tacerò. La pazienza e il coraggio”

Che a scrivere queste righe sia un presbitero è a dir poco scontato, anche se la penuria dei confratelli che si uniscono (o si sono uniti) alla sua voce rende più corretto l’uso del condizionale. E’ tuttavia grave che ben pochi dei milioni di laici italiani, sedicenti cristiani, abbiano accettato senza colpo ferire un ginepraio di divieti (che assomiglia di più a dei “niet” assoluti) sulla propria vita spirituale, molti dei quali insensati e decisamente al di sopra, ed al di là di ciò che può ragionevolmente essere definito pericolo di contagio. Divieti che hanno propriamente il sapore acido dell’autoritarismo (le scene che si sono da ultimo viste di brutale interruzione di riti sacri ne sono triste testimonianza). Qui non si tratta di essere scienziati o meno; e comunque se il futuro è una dittatura scientifica, politicamente acefala, preferisco correre il rischio di percorrere una strada diversa, visto che gli scienziati non mi garantiscono la vita, nè su questa terra, nè sull’altra

Sono d’accordo che è una vera ingiustizia privare chi sente la fede e i Sacramenti come una necessità da vivere quotidianamente: E mi domandavo come mai nessuno nell’ambito della Chiesa sollevasse la questione.
Poi finalmente la richiesta della CEI che però viene respinta da chi sta al governo. Che delusione, ma non disperiamo, Gesù ci ama e speriamo che dopo tutto quanto imposto rinasca più forte che mai la Fede.
Pace e bene!

Grazie. Sono totalmente d’accordo. Da tempo cerco di divulgare questo sentire ma purtroppo ci sono tanti sordi solo obbedienti al “potere”, anche tra i preti.
E poi credo ci sia anche tanta ignoranza che è stata domostrata anche da chi ci governa: ignorati gli articoli 1, 2 e 5 del Concordato.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.