Pentecoste

di Assunta Scialdone, teologa

Pentecoste, il culmine della nuzialità

22 Maggio 2021

Cosa ha in comune la Pentecoste con il matrimonio? Essa rappresenta il suggello, l’anello nuziale che unisce gli sposi tra loro e con Dio generando, quotidianamente, il Messia per gli altri.

Shavu’òt letteralmente significa settimane. La sua traduzione greca è Pentecosté, cioè cinquanta giorni dopo Pesach/Pasqua. Shavu’òt è una festa agricola che affonda le proprie origini nella prima mietitura, infatti, è chiamata anche festa delle primizie. Nell’ambito cristiano ricorda la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e ciò sembrerebbe sottolineare che lo Spirito Santo venga donato agli uomini come primizia. Ai nostri tempi, gli ebrei, nel giorno dello Shavu’òt, ringraziano JHWH per il dono della Torah, la legge, l’insegnamento di Dio che, se accolto, conduce alla santità. Al tempo di Gesù la Pentecoste era anche una delle feste di pellegrinaggio previste nella legge, secondo quanto scritto nel libro del Deuteronomio 16, 16, là dove è richiesto che ogni anno gli ebrei maschi, in rappresentanza di tutto Israele, salgano a Gerusalemme “per presentarsi al Signore”. Probabilmente, oltre che per il comando ricevuto da Gesù di non allontanarsi da Gerusalemme, è anche per questo motivo che i discepoli, cinquanta giorni dopo la risurrezione di Gesù, si trovano nuovamente riuniti nel cenacolo dove riceveranno il dono dello Spirito Santo promesso dal Maestro. Sta di fatto che questo dono diventerà l’inizio di una nuova comprensione della legge-Torah portata a compimento dallo stesso Gesù. 

A differenza degli Atti degli Apostoli, nel Vangelo di Giovanni (20, 19-23) questo dono viene dato agli Apostoli subito, senza l’attesa dei cinquanta giorni. Si legge, infatti: “La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. (…) Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi»”. A leggere il Vangelo di Giovanni, si ha l’impressione che lo Sposo Gesù voglia mostrarsi e donare lo Spirito Santo immediatamente senza lasciare i suoi nello smarrimento. Un’altra particolarità del racconto di Giovanni sta nel fatto che è Gesù stesso a donare lo Spirito alitando su di loro, ripetendo così il gesto di YHWH nel giardino di Eden. Si tratterebbe di un dono nuziale, quindi.

Ci troviamo nel primo giorno della settimana, il primo dopo il sabato (la domenica). É il giorno della scoperta della tomba vuota. I discepoli di Gesù, che erano fuggiti al momento dell’arresto del Maestro, sono chiusi nel cenacolo a Gerusalemme, timorosi di essere anche loro accusati, ricercati e imprigionati come il loro Gesù. Sono uomini e donne paralizzati dalla paura, senza coraggio, per aver perso la fede, la fiducia in Colui che avevano amato e seguito. Gesù conosce i loro cuori attanagliati dalla paura e dall’angoscia. Il suo primo dono, infatti, passa attraverso la parola Shalom, pace. Gesù dona loro prima la pace che li riabilita al rapporto con il Messia ridonando fiducia, serenità interiore. Solo dopo, lo Spirito. Gesù appare loro nella condizione gloriosa ed è bellissimo, al punto che fanno fatica a riconoscerlo. Gesù, come un vero sposo che ama, non s’impone, aspetta che lo riconoscano e che liberamente esprimano fiducia e amore verso di Lui anche attraverso qualche gesto amoroso. «E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,20). L’amore vero non schiaccia, ma libera dalla paura ed è ciò che avviene negli Apostoli. Dopo la notte oscura attraversata nel vedere il Gesù inchiodato alla croce come un malfattore, nel rivederlo, ritrovano quell’amore sorgivo che li aveva condotti alla sequela di quel Rabbi tanto carismatico. 

Leggi anche: La liturgia nuziale è una Pentecoste coniugale. Come possiamo viverla?

Come allora, anche oggi Gesù, come vero sposo, parla a noi sposi chiamandoci all’amore vero quello che non schiaccia, ma libera. Ci chiede di ribaltare le situazioni di buio che si possono creare nella relazione coniugale per ritornare all’amore della giovinezza, della promessa d’amore per vivere l’amore coniugale in una forma sincera, agapica, vissuto nell’eros libero da ogni forma di concupiscenza così come fu creato nell’Eden prima della disobbedienza. Ci dà la possibilità di uscire dall’eros sentimentale soggettivo per entrare nell’eros divino liberante ed essere ricreati nel corpo e nello spirito (Cf. G. Mazzanti) proprio come avviene con gli Apostoli, Maria di Magdala ed i discepoli di Emmaus quando incontrano il Risorto. Il passaggio dall’eros soggettivo a quello divino trasforma la carne ridonandole la sua luminosità primordiale così come si legge nel libro del profeta Osea: “Puoi portare sulla tua faccia i segni della prostituzione e nel petto i segni del tuo adulterio, eppure io ti riporto all’amore vero” nel quale spariscono i segni della prostituzione e dell’adulterio. Questa è la ricreazione che avviene, quando si accoglie il Risorto nella propria vita. Siamo chiamati al vero amore, ad un amore che ricrea e rende nuova l’altra persona trasformando le ossa aride in nuova vita e nuova carne (Cf., Ezechiele, 37).

Dopo aver ricevuto la pace da Gesù, gli Apostoli lo riconoscono. È come se gli occhi si aprissero nuovamente alla bellezza dell’amore. Anche i progenitori genesiaci avevano fatto l’esperienza dell’apertura degli occhi che per loro aveva significato la visione della “nudità” del loro essere. Ora, invece, nel nuovo inizio, gli occhi si aprono sulla presenza di Colui che fa ardere i cuori. “Non ci ardeva forse il cuore in petto?” (Cf., Lc 24, 32) dicono i discepoli di Emmaus quando i loro occhi si aprono sulla Sua presenza mistica con loro. È quest’unione mistica con lo Sposo che siamo chiamati a desiderare ed accogliere quando essa si presenta nelle pieghe della nostra quotidianità. Chi più degli sposi, infatti, è chiamato a vivere, attraverso il sacramento del matrimonio, le nozze mistiche con Dio? Chi più di loro conosce il linguaggio dell’amore vissuto anche attraverso la corporeità? Ci piace immaginare che i discepoli di Emmaus fossero una coppia composta da un uomo, Cleopa, e una donna di cui, per tale motivo, si tace il nome. Ci piace immaginare che nell’incontro col Risorto ri-sperimentassero la presenza di Dio che passeggia con loro come nel giardino di Eden ma, in quest’occasione, all’interno di una nuova creazione, di una nuova relazione.

Gesù si mostra ai discepoli con i segni delle piaghe. Il Suo corpo glorioso conserva i segni della sofferenza, dell’odio, come se le conservasse gelosamente in sé come un indizio di qualcosa. Esse sono il segno del suo amore per noi che supera il dolore, il tradimento e la morte. Quelle piaghe, infatti, sono come feritoie attraverso le quali scorgere l’inesauribile amore per noi. Diventano il nostro rifugio, il nostro deserto, dentro il quale diventare una cosa sola con Lui. Davanti al Risorto che mostra le piaghe, si resta senza parole. Tutta la presunzione dell’uomo viene a cadere. Si sta come nudi davanti al sommo Amore. Una volta purificati dal Suo amore, e solo allora, possiamo compiere quel gesto di Maria di Magdala che si inginocchia stringendo a sé i piedi feriti dell’Amato in una stretta amorosa conducendola ad una nuzialità alta che la porterà a comprendere che l’amore è più forte della morte, persino di quella che l’amata ha causato all’Amato. A tutto ciò sono chiamati gli sposi attraverso il perdono reciproco, richiamato dal gesto della lavanda dei piedi. Il perdono si esprime nell’abbandono di se stessi, del proprio “io”, dei propri principi e ragioni divenendo per l’altro un dono moltiplicato (per-dono) che si esprime nel “lavare” la radice dell’essere dell’altra persona. Una volta che si perdona l’altro, il proprio essere diventa “pane” per l’altro che è di fronte ed è proprio in questa dinamica che si diventa una sola carne: ci si pone nella condizione di dono e dell’accogliere in dono l’altro. È per questo che ci si sposa, non per altro. Solo in questa condizione si riesce a non fuggire, ma ad amare l’altro anche di fronte ad un tradimento. Il nostro atteggiamento non assomiglierà a quello di Giuda che è infedele e scappa. Se l’altro è per noi la propria carne, anche davanti alla morte non si smette di amarlo perché non importa più di se stesso, ma dell’altro: «Ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25). L’altro diventa la vera pre-occupazione. Allora, di fronte ad un tradimento, non si può pensare egoisticamente solo al proprio malessere e al proprio presunto diritto di essere felici a tutti i costi ignorando l’altro e le motivazioni che lo hanno condotto a ciò. Il Risorto non scappa, ma si mostra a noi insegnandoci che l’amore è più forte di qualsiasi morte. Ecco che il Signore, nel giardino del sepolcro, mentre Maria stringe i piedi piagati del Maestro, la chiama per nome. In quell’essere chiamata, Maria incontra l’amato del suo cuore, facendo così esperienza che «dalle sue piaghe siete stati guariti» (1Pt 2,25). Come Maria e gli Apostoli nel Cenacolo, gli sposi possono far esperienza del miracolo della trasmutazione della ferita in segno di beatitudine. Dopo la risurrezione di Cristo e il dono dello Spirito, nessuna notte è veramente tale.

Negli Atti degli Apostoli, invece, la discesa dello Spirito è descritta come un evento improvviso ed impetuoso: “Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano”. Cosa suscitò questo evento nel cuore degli Apostoli? La voglia di raccontare a tutti come l’incontro con Gesù aveva cambiato la loro vita, senza soffermarsi sulle loro (poche) abilità linguistiche, sui loro limiti. L’effusione aveva inondato i loro cuori del dono di riuscire a trasmettere quella gioia, quell’amore e quella pace che avevano vissuto con il Maestro. È come se nel cuore degli Apostoli si riaccendesse il roveto ardente sotterrato dalla cenere della paura. È la fiamma dell’amore vero che spinge ad annunciare a tutti gli uomini la bellezza dello Sposo Gesù. La discesa dello Spirito Santo avvenne nella stanza al piano di sopra, “la stanza alta” che è, solitamente, la stanza dell’intimità, quella stessa stanza nella quale Gesù aveva istituito l’Eucaristia, donandosi pienamente ai suoi apostoli. Proprio come fanno quei coniugi che, nella “stanza alta”, si donano pienamente. Nella stanza “dell’intimità” era presente anche Maria, la madre di Gesù, e la sua presenza sembra quasi un custodire gli apostoli per una nuova incarnazione del Verbo nella Chiesa per opera della Spirito Santo. È come rivivere nuovamente il mistero nuziale vissuto all’annuncio dell’Arcangelo a Maria, nell’istituzione dell’Eucaristia e, in questo caso, nella nascita della Chiesa. 

“Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro”. Il fuoco che scende sugli Apostoli non è altro che il fuoco dell’amore sponsale del Dio Uno e Trino, di Cristo-Chiesa e dell’uomo-donna. Lo stesso fuoco che Mosè vide ardere nel Roveto, quello che i discepoli di Emmaus sentirono nei loro cuori dopo che riconobbero il viandante misterioso e quello che i mistici sperimentano nella loro vita prima delle nozze mistiche con Dio. Chi riceve questo fuoco diventa fecondo come Maria di Magdala dopo l’incontro con il Risorto e come gli Apostoli che non rimangono chiusi nel cenacolo, ma decidono di uscire fuori ed annunciare a tutti quella fecondità. Entrambi i racconti, in ogni caso, con questi loro riferimenti, sono fondamentali per comprendere la chiave nuziale della Discesa dello Spirito e come quindi il matrimonio, ma ogni missione, si possa comprendere alla luce di questo evento che completa la Risurrezione. Essa, infatti, vista dal punto di vista degli apostoli impauriti, sarebbe stata vana. Solo dopo la Pentecoste, essi escono allo scoperto. Solo dopo la cresima, potremmo considerare, una persona può venire allo scoperto della propria vocazione. L’amore è percepito inesauribile solo dopo l’effusione. Dunque le nozze, ma anche la speciale consacrazione, traggono luce da quell’evento nella camera alta, quella particolare unione tra l’umano ed il divino che avviene per opera dello Spirito. Il dono può essere tale solo dopo che lo Spirito è stato donato.

La Genesi ed il soffio primordiale di Dio trova qui il suo compimento. Il senso ultimo della Torah sta in quel soffio nella camera alta. La Pentecoste diventa allora, il suggello, l’anello nuziale che unisce gli sposi tra loro e con Dio generando, quotidianamente, il Messia per gli altri. In questo senso, anche oggi la Pentecoste rimanda alla celebrazione di una primizia, quella del mondo nuovo, il Regno, che i due sacramenti per la missione, matrimonio e ordine, sono finalmente abilitati a costruire.




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