CORRISPONDENZA FAMILIARE

“Non trovo un minuto di pace”. Storia di un prete che ha dato tutto

29 Gennaio 2024

Il sacerdote è un uomo che ha ricevuto il cuore di Dio e la forza di Dio. Un uomo che guarda la vita con gli occhi appassionati di un padre che ama i suoi figli ed è pronto a fare tutto ciò che serve per dare loro un futuro. Non teme di intervenire e, soprattutto, non teme la fatica e la sofferenza. Appartiene alla categoria di coloro che sono pronti a uscire dal perimetro delle proprie sicurezze, senza contare i passi e senza lasciarsi prendere dalla paura di faticare invano. È questa la fotografia di don Enrico Smaldone (1914-1967), un prete che ha consumato la vita per amore di Gesù. 

L’Italia usciva stremata dalla guerra, c’erano tante ferite da sanare. Don Enrico appartiene alla diocesi di Nocera Inferiore – Sarno, cresce all’ombra di sant’Alfonso Maria Fusco (1839-1910), un prete che aveva saputo vivere e testimoniare la carità nella forma più straordinaria. Vive i suoi primi anni di sacerdozio segnati dall’entusiasmo ingenuo di chi pensa di scrivere pagine nuove nella bimillenaria storia della Chiesa. Il suo ministero è ricamato da tanti impegni, quelli che appartengono alla vita ordinaria della comunità ecclesiale: nel 1945 inizia l’esperienza con gli scout, accompagna i giovani universitari della FUCI, svolge il servizio di cappellano presso le Suore Battistine. La fedeltà nelle piccole cose lo prepara ad accogliere quei progetti più impegnativi che il buon Dio aveva pensato per lui. 

Tra le molteplici emergenze sociali di quel tempo don Enrico sente la chiamata a prendersi cura dei più piccoli, di quei ragazzi che, non potendo contare sulla presenza di una famiglia, non avevano la possibilità di studiare o di imparare un mestiere. Non avevano un futuro, rischiavano di arrivare alla maggiore età senza avere le risorse necessarie per inserirsi nella vita sociale. Questa fragilità sociale è sotto gli occhi di tutti ma la scarsità delle risorse economiche impedisce di intervenire in modo adeguato. Tutti sono impegnati a ricostruire con fatica la propria casa e il proprio futuro. 

Don Enrico invece accoglie la provocazione e decide di rispondere. Lo fa con tutto il coraggio della giovinezza e con tutta la carità che scaturisce dalla fede. In fondo, nel DNA di ogni sacerdote c’è scritto I care, “ci sono”, “puoi contare su di me”. Egli diventa così l’icona luminosa di una Chiesa che lotta contro l’individualismo di chi pensa solo a se stesso o, nel migliore dei casi, di chi pensa prima a se stesso

Agli inizi del 1949 annuncia pubblicamente il proposito di costruire una Città per accogliere i ragazzi che non avevano famiglia. Quel giorno consegna ai giovani di Angri parole che vogliono scuotere la coscienza dei buoni, un vero e proprio annuncio:

“Lasciate scaturire dai cuori la forza per il bene, perché chi non sa uscire fuori di sé stesso, o non sa prodigarsi del prossimo, non è degno dell’età nostra e della professione cristiana”. 

Il giovane prete si è lasciato interpellare e, a sua volta, interpella gli altri. Non poteva né doveva realizzare da solo un’opera così grande. Per questo chiese ai giovani di vivere da protagonisti e di scrivere, assieme a lui, una nuova e feconda storia di carità. E così, non solo ha seminato il bene con abbondanza, permettendo a tanti ragazzi di ricevere tutto ciò che era necessario per sviluppare la loro personalità; ma anche ha dato a tanti altri la gioia di partecipare in modo attivo e responsabile alla costruzione di una società in cui la povertà non è più una condanna ma un silenzioso appello alla carità. 

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Quando ha iniziato la sua opera don Enrico aveva il cuore pieno di sogni e le tasche vuote. Sapeva che avrebbe dovuto lottare per realizzare un sogno che andava ben al di là delle risorse di cui poteva disporre. Per questo scrive: “Le difficoltà le affronterò una alla volta, man mano che si presentano”. E difatti, qualche anno dopo (31 maggio 1951) scrive all’amico Federico Russo: 

“Non trovo un minuto di pace, caro Federico. Sono solo a dover risolvere tutti i problemi: educazione dei fanciulli, pratiche presso vari Enti per ottenere sussidi (di cui ancora non ho visto niente), raccolte di offerte, lavori di costruzione e da ultimo anche l’impianto di una falegnameria. A volte mi sento tanto stanco, vorrei concedermi un po’ di riposo, ma poi mi riprendo subito: non bisogna fermarsi neanche un attimo fino a quando non avremo raggiunta la meta. È vero che arriveremo esausti, ma che importa quando il nostro ideale è raggiunto? Neanche la morte ci spaventerà più allora, quando avremo assolto il compito che Dio ci ha assegnato”. 

Il giorno in cui presenta il suo progetto (11 febbraio 1949), quello che con un’immagine semplice e suggestiva chiama il suo “sogno”, don Enrico fa una promessa alla quale rimarrà fedele: “Io non desisterò fino a quando non sarà venuto in meno in me l’ultimo respiro”. Tutti sono bravi a sognare, pochi sono disposti a spendere la vita per realizzare i sogni. Tanti sono bravi a partire, pochi sono capaci di perseverare fino alla fine. Don Enrico si butta nell’avventura perché ha l’intima coscienza che quel sogno non è un progetto umano ma una parola che ha il timbro di Dio. 

Don Enrico Smaldone

La parabola del seminatore passa in rassegna i terreni in cui il seme non produce frutti – per ricordare la fatica e le delusioni che accompagnano ogni semina – ma si conclude con un sorprendente annuncio di speranza: “Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno” (Mc 4,8). Dio non fa mancare il seme e neppure l’acqua ma il portare frutto dipende anche dal terreno. Don Enrico ha semplicemente accolto e custodito con amore geloso la parola seminata da Dio, facendola germogliare e portare frutti saporiti. Non si è tirato indietro, lui ha seguito fedelmente la regola che deve accompagnare ogni impegno: “Non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo” (Gal 6,9). 

Il Vangelo non è una dottrina ma una parola che dona vita, come scrive il profeta: “Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete” (Is 55,3). Chi ascolta, non solo riceve vita ma diventa fonte di vita, proprio come è accaduto a don Enrico. Se la Chiesa si limita a ripetere le parole di Gesù, quelle parole si perdono nel rumore delle voci. Se invece, quella parola viene proclamata e testimoniata con la passione di chi ama, scuote la coscienza anche dei più distratti e, non raramente, apre il cuore alla grazia. La vicenda di don Enrico appartiene ormai alla storia ma la sua testimonianza è più che viva che mai. 




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Silvio Longobardi

Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera Inferiore-Sarno, è l’ispiratore del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus. Esperto di pastorale familiare, da più di trent’anni accompagna coppie di sposi a vivere in pienezza la loro vocazione. Autore di numerose pubblicazioni di spiritualità coniugale, cura per il magazine Punto Famiglia la rubrica “Corrispondenza familiare”.

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