Con Cristo nel mondo. Dall’apnea alla Risurrezione

30 Marzo 2024

Samuel van Hoogstraten, Resurrection of Christ (particolare), The Art Institute of Chicago

Se Cristo è morto per noi e ha assunto su di sé tutta la fatica umana, non è più necessario fuggire la vita di ogni giorno. Essa diventa, invece, il metro del nostro conformarci al Cristo. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa perché più forte della morte è il Suo amore.

Nonostante le diverse intenzioni, spesso, viviamo i giorni della Settimana Santa immersi in numerosi impegni che rischiano di quasi soffocarne la bellezza e la grazia. Inevitabilmente, ci si trova a vivere impegni improrogabili a livello lavorativo, domestico, ma anche liturgico, per chi svolge ministeri all’interno di una comunità parrocchiale, o anche, semplicemente, in un movimento ecclesiale. 

Il rischio che si corre è viverli con quell’ansia che può generare nervosismo. Si tratta di cose buone e sante. Ciononostante, tutta la profonda bellezza di questi giorni potrebbe finire sottotraccia senza che il cuore ne venga coinvolto. Anche i migliori propositi, nati da una santa confessione, rischiano di essere vanificati. 

Cosa fare, allora? Ritirarsi in un luogo isolato e dedicarsi esclusivamente alla meditazione? Sappiamo che per noi laici ciò è un’utopia. Allora che fare? Gettare la spugna? Ovviamente, no. Cercare di ritagliarsi, durante la giornata, delle brevi parentesi per meditare sul mistero dell’amore donato è invece possibile e salutare. 

Le ore lente oppure quelle mattutine, quando tutti riposano, possono tornare utili. Il susseguirsi di numerose scadenze, quest’anno, mi conduce a soffermarmi sul senso di soffocamento che spesso viviamo a causa degli impegni quotidiani. Senza che sembri strano, da lì al sangue che Cristo dona per noi durante l’Ultima cena che viene celebrata il Giovedì Santo, il passaggio è stato quasi naturale. 

La parola dam – דם – in ebraico significa sangue e cuore e la sua radice semantica è composta da dalet -ד – che ha l’immagine della porta e da mem – מ – che significa qualcosa di liquido. La combinazione di daled e mem indica una ferita aperta dalla quale scorre un liquido rosso, il sangue. 

Secondo la lingua ebraica, il “sangue” non solo è un portatore di forza vitale ma è anche una “porta” attraverso la quale si entra nelle parole di vita degli antichi testi ebraici e nella morte. Risulta così più chiaro, seguendo quest’accezione del termine, il rimando a Cristo che si paragona alla porta – “Io sono la porta” (Gv 10,7-9) – attraverso la quale si entra e si diventa una cosa sola, non più solo con i testi ebraici, ma con Lui e, per Lui, con Dio Trinità.

Nella sacra scrittura, ritroviamo il sangue nel contesto dei sacrifici rituali laddove è considerato elemento di purificazione ed espiazione. Il sacrificio di un animale e l’aspersione con il suo sangue erano considerati come vie attraverso le quali poter ripristinare la comunione tra il singolo uomo e Dio, rimuovendo le colpe e restaurando l’armonia originale presente prima della colpa dei progenitori. Infatti, in Levitico 17,11 si legge: «Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espìa in quanto è la vita». 

Il sangue è segno potente di vita e per tale motivo in Genesi, subito dopo il diluvio, Dio ne proibisce il consumo perché esso rappresenta la vita stessa dell’essere vivente (Gen 9,4). Allo stesso tempo, però, è anche associato alla morte, come in Gen 4, 10 laddove leggiamo: “il sangue di Abele grida dalla terra”.

Un altro contesto nel quale troviamo il sangue è quello dell’alleanza sinaitica. In Esodo 24,8 Mosè prese il sangue e asperse il popolo come sigillo di alleanza tra Dio e il popolo. Quest’ultimo contesto ci rimanda alla nuova ed eterna alleanza stipulata da Cristo sull’altare della croce. Un’alleanza che si intravede nell’ultima cena durante l’istituzione dell’Eucaristia al momento in cui Cristo porge il vino ai discepoli affermando che è il suo sangue offerto per la salvezza di molti. Tale alleanza è poi conclusa sulla croce quando la porta-Cristo viene squarciata e, così, aperta dalla lancia del centurione che da essa fa sgorgare il sangue e l’acqua che sanciscono la nuova alleanza che vedrà l’uomo inserito pienamente nel seno della Trinità. 

Leggi anche: Croce e Resurrezione: lasciamoci amare da Dio proprio quando soffriamo! (puntofamiglia.net)

C’è da fare un’osservazione: quando ci accostiamo all’Eucaristia, noi mangiamo il corpo ed il sangue di Cristo, facciamo nostra la Sua Vita e questo è consolante. È anche vero, tuttavia, che attraverso l’Eucaristia, noi ci uniamo anche al mistero della morte di Cristo, con tutto ciò che essa comporta. In tal senso si tratta di un vero e proprio matrimonio, nel bene e nel male: l’unione con l’Altro riguarda le gioie ma anche le tribolazioni. 

Vivere la morte di Cristo, attraverso le sofferenze fisiche e spirituali, non è cosa disdicevole. Se è vero, com’è vero, ciò che afferma l’apostolo Paolo in Efesini 5 quando chiarisce che Cristo è capo e sposo della Chiesa sposa. In quest’analogia, come il corpo della sposa appartiene al marito e viceversa, allo stesso modo il corpo di Cristo ci appartiene, siamo il Suo corpo, nella buona e nella cattiva sorte. 

Da un lato, questo grande mistero ci investe di responsabilità nel custodire il nostro corpo ed i nostri sensi da ogni forma di peccato perché sottoponiamo il corpo di Cristo ad oltraggi; ma è anche vero che Cristo possiede il mio corpo e ciò mi abilita ad essere forte davanti alle tribolazioni fino ad affermare: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? (…) Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8, 31ss).

La vita stessa del Cristo è stata una lotta tra l’esigenza di vivere la missione e le ostilità che il mondo offre. Va bene allora custodire la grazia, cercare di trovare momenti di ristoro spirituale, allontanarsi dai pericoli del mondo. È anche bene, tuttavia, vivere la vita pur con le amarezze che propone, ma viste dalla prospettiva di Gesù, viverla, cioè, come una chiamata a conformarsi a Lui anche nelle tribolazioni. È come se l’anima dicesse: “Gesù, tu le hai accolte, fatte tue e portate sulla croce. E io, che attraverso l’Eucaristia divento una sola carne con te, sono chiamata alla stessa accoglienza”. Ben sapendo che alla fine c’è la Risurrezione. È, infatti, questo atto di fede che fa la tremenda differenza: si accetta di passare con Cristo attraverso il soffocamento della routine quotidiana sapendo che, facendolo insieme a Lui, attraverso la comunione con i suoi sangue e corpo risorti, anche noi siamo chiamati alla risurrezione. 

Il sangue della Prima Alleanza, trasfigurato e rinnovato definitivamente da quello di Cristo, diventa sorgente di aria nel soffocamento quotidiano. Non è più necessario fuggire la vita di ogni giorno. Essa diventa, invece, il metro del nostro conformarci al Cristo attraverso i sacramenti che, come noto, nascono nel Triduo passione-morte-risurrezione di Cristo. Sono questi che ci daranno forza nel duello tra morte e vita di cui sentiremo al mattino di Pasqua. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa perché più forte della morte è il Suo amore e, nel Suo, anche il nostro, fragile, ma non abbandonato e non vinto. 




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Assunta Scialdone

Assunta Scialdone, sposa e madre, docente presso l’ISSR santi Apostoli Pietro e Paolo - area casertana - in Capua e di I.R.C nella scuola secondaria di Primo Grado. Dottore in Sacra Teologia in vita cristiana indirizzo spiritualità. Ha conseguito il Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Da anni impegnata nella pastorale familiare diocesana, serve lo Sposo servendo gli sposi.

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