
SCUOLA ED EDUCAZIONE
Giovani soli davanti alle scelte: adulti, tendiamo loro la mano!
8 Maggio 2024

I ragazzi ci appaiono sempre più distanti? Allora dobbiamo inventarci qualcosa per penetrare la cortina che ci separa dal loro mondo, col quale abbiamo perso i contatti. Lo dobbiamo fare noi adulti, a partire dalla nostra esperienza, ma aperti a farne anche di nuove insieme a questi figli nei cui territori dobbiamo scendere o salire…
Il docente voleva produrre un effetto di stupore nei ragazzi. Stava parlando delle differenze tra le culture di nazioni lontane, ma avrebbe imparato lui, presto, una nuova lezione. Mostrò alla lavagna un crisantemo. Raccontò che nel lontano Giappone esso è considerato un fiore per fidanzati. Si aspettava una reazione da parte dei ragazzi visto l’uso che ne facciamo noi, in Italia. E invece non accadde nulla. Si accorse subito del fatto che molti non conoscevano il fiore.
Quelli che lo conoscevano non sapevano del suo utilizzo per il giorno dei defunti. Gli unici a stupirsi nell’aula furono gli adulti. Come è possibile? Questi ragazzi non sanno che i crisantemi si usano per i defunti ai cimiteri? Ebbene sì! È possibile. Gli adulti scoprirono anche che molti di questi ragazzi non vanno da anni al cimitero. Stupore. Anche mal celato. L’attività finì così. Bruscamente. Il tema dell’incontro era l’integrazione delle diverse culture. La scoperta terribile fu la non appartenenza dei nostri giovani ad una cultura di riferimento. O almeno a quella delle generazioni che li precedono.
Ragazzi rimandati in classe e adulti ad interrogarsi. Ecco una plastica rappresentazione della distanza intergenerazionale che viviamo con i nostri giovani e loro con noi. La parola che venne in mente ad uno dei relatori fu Iato, inteso in senso figurato, come stacco, interruzione, discontinuità, frattura all’interno di una catena di eventi, di fatti, di dati o di un’azione, una vicenda, un’operazione. Nel nostro caso si tratta di un’interruzione di passaggio di notizie tra la generazione precedente e quella successiva.
Qualche giorno dopo accade qualcosa di simile. Stavolta si parla di orientamento. La formatrice somministra un modulo di domande per indirizzare la riflessione di questi giovani alle prese con l’inconsapevole costruzione della loro vita. Domande banali, affrontate anche con sufficienza dagli alunni di terza media. Quando però si passa all’analisi, con loro, delle risposte, arrivano altre sorprese.
Riassumo per il ragionamento. In molti, come è giusto che sia, non si sentono pronti per la scelta della scuola superiore da frequentare. Ci sta. Colpisce, però, che, nonostante questa consapevolezza, solo un ragazzo si sia rivolto a degli sportelli e quasi nessuno ne ha parlato con le proprie famiglie. Alla domanda stupita del formatore, consegue la risposta che “sono fatti miei personali, devo decidere io, se ne parlo mi influenzano!”. Gli occhi degli adulti si cercano inconsapevolmente per cercare conferma di quanto ascoltato. Hanno capito bene. Questi giovani ritengono di dover fare da soli, di non aver bisogno del confronto con un adulto, persino di quello con i genitori.
Ne avranno parlato con persone del settore che intendono frequentare, allora? Nemmeno. Non ci hanno pensato. Le domande procedono. Si arriva alla fatidica questione della predisposizione: ritengo di avere le capacità per ottenere buoni risultati a scuola? La maggior parte se le riconosce. Altri no. Il formatore vuole però approfondire e allora chiede quali siano queste capacità? Cosa serve per “andare bene” a scuola? Silenzio. Stupore. Anche del formatore. Effettivamente la questione è grossa: quali caratteristiche deve avere un alunno per essere bravo a scuola? Cosa si fa a scuola? Non sembra essere molto chiaro ai ragazzi. Ritengono tuttavia di essere molto intelligenti, ma a domanda precisa non sanno definire a parole loro l’intelligenza. Hanno delle materie preferite ma non sanno dire cosa sia una “materia”. Già: cosa sono le materie? Che differenza c’è – chiede il formatore – tra l’Illuminismo studiato in storia, quello studiato in arte, quello approfondito in letteratura italiana e in inglese? Qualche ragazzo si accende. Perché studiamo la stessa cosa in tante materie diverse? L’adulto suggerisce una possibile risposta. Perché le materie sono, forse, dei punti di vista sulla realtà, dei modi diversi per vedere il mondo, delle strade per capire la vita… Il discorso si fa serio, sembra esulare un poco dalla scuola e scendere nell’agone della propria esistenza. Allora vale la considerazione che in quelle ore non si stia facendo solo orientamento scolastico, ma ci si stia giocando il futuro della propria vita.
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Che cosa ne vuole fare ognuno di loro? Discorsi troppo “grandi”? Per questi ragazzi sono assai complicati, lontani dall’ipertrofico presente che sono costretti a vivere. Se c’è una domanda che manca oggi è “che vita voglio vivere?”. La scelta della scuola è solo una conseguenza della risposta che si dà a questa domanda. Che però non viene più posta. E infatti, la maggior parte degli studenti sbaglia la scelta.
Ci ritroviamo, così, liceali senza la voglia di studiare e talenti matematici confinati nei licei umanistici: tutti non a proprio agio. I colleghi delle superiori con cui mi confronto non smettono di raccontarmi la loro “desolazione” di fronte a adolescenti completamente fuori posto nelle loro classi. Che adulti saranno? Quale percezione del mondo avranno? E quale visione della propria vita? Il passaggio che vivono è molto delicato. E noi adulti dobbiamo inventarci qualcosa per penetrare la cortina che ci separa dal loro mondo, col quale abbiamo perso i contatti. Vivono in un universo parallelo, essenzialmente digitale, in cui sconosciuti li sfruttano per i loro scopi di lucro e poi, dopo averli sedotti, li abbandonano al loro destino inesplorato. Siamo passati, nel giro di un decennio o poco più, da una società in cui le tradizioni delle generazioni precedenti passavano a quelle successive a questo che più di uno iato si mostra come una voragine intergenerazionale. Non ci riconosciamo più reciprocamente. Si connettono ogni giorno con coetanei e sconosciuti, utilizzano i nuovi media per socializzare, ma a volte riscontrano difficoltà quando si tratta di mettere in gioco competenze di base che nella vita risultano fondamentali per avere relazioni positive e per gestire al meglio le proprie emozioni. E questo è l’altro problema venuto fuori da queste chiacchierate. Come affrontare il tema dell’alfabetizzazione emotiva nell’era dell’onlife (neologismo per provare a dire di questa vita on line) fuori e dentro l’aula?
Sicuramente per gli educatori convinti della centralità del loro ruolo, siamo di fronte ad una chiamata alle armi. Bisogna inventarsi qualcosa. Uno dei relatori protagonisti di queste scoperte ricorda che la parola iato ha anche un’accezione anatomica: esso è la parola generica con cui si denominano le aperture, le fessure, le brecce che mettono in comunicazione cavità diverse. La sfida che abbiamo davanti a noi è proprio questa, allora. Cercare uno iato, un canale di comunicazione tra due mondi ormai distinti, quello degli adulti e quello dei ragazzi. Non è facile e questo nessuno lo nega. Ma è necessario! Per il bene di questi giovani. È completamente fuori luogo barricarsi dietro rivendicazioni generazionali tipo “ai miei tempi…”. Quei tempi non ci sono più. Ci sono questi. Con essi dobbiamo fare i conti. Si tratta di un vero e proprio atto d’amore nei confronti dei nostri giovani. Lo dobbiamo fare noi adulti, a partire dalla nostra esperienza, ma aperti a farne anche di nuove insieme a questi figli nei cui territori dobbiamo scendere (o salire). Siamo chiamati a passare attraverso le barricate intergenerazionali. Per il bene di tutti. Ecco la grande sfida per la nostra società in generale e per le nostre scuole e famiglie in particolare. Almeno, così mi si prospetta dalla cattedra.
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