Ansia da “corpo perfetto”. C’è una via d’uscita…

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L’ossessione contemporanea per il corpo perfetto, un’immagine spesso idealizzata e irraggiungibile, rischia di offuscare la vera essenza di ciò che siamo. Eppure, nemmeno l’opposto estremo, ovvero il disprezzo o la negazione del corpo, è la risposta. Come trovare un equilibrio?

Ho finalmente qualche minuto libero. Prendo il cellulare, apro il mio social preferito e entro nel loop dello scrolling infinito. Foto, video, immagini a ripetizione che gridano ad alta voce: “Tu non vai bene così!”. É inevitabile che si insinui il dubbio: fisici statuari, bellezze inarrivabili, chirurgia estetica e filtri a gogo. Ormai ci ho fatto l’abitudine e il mio percorso di fede mi ha liberato dalla schiavitù del confronto. Però penso alle ragazze che accompagno come catechista, alle mille insicurezze che si portano dietro che si nutrono di tutto questo e risorgono vecchie domande.

Come spezzare il legame tra questa ostentazione dei corpi e l’insicurezza che ci abita? Quali parole suggerire al cuore di chi si guarda e si giudica come poca cosa? La parola che ha tirato fuori me da questo mostro è stata quella che qualcuno mi ha consegnato qualche anno fa: il sogno di Dio è avere figli felici e fecondi.

Tu non hai un corpo, tu sei un corpo. Ti costituisce come persona, il modo con cui lo tratti o lo presenti dice tanto di chi sei. Se Dio si è incarnato, scegliendo per sé un corpo, vuol dire che in questo – che qualcuno vorrebbe definire solo una gabbia – c’è una grande bellezza e un’infinita dignità. Ciascuno di noi nel proprio corpo è creato a immagine e somiglianza di Dio. Come un prodigio, una meraviglia infinita, ripete un salmo. Finché questa certezza non ti abita allora niente è sufficiente a colmare quella fame, quel bisogno insaziabile di sentirti guardato con tenerezza, riconosciuto nella tua bellezza, apprezzato e stimato.

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Al termine di un ritiro con la Fraternità di Emmaus (movimento ecclesiale che accompagna giovani e sposi) ricevetti scritta su un segnalibro una frase del libro del Siracide che custodisco con particolare attenzione: “Chi è cattivo con se stesso con chi si mostrerà buono? Non sa godere delle sue ricchezze”. Non riuscire a guardarti con tenerezza è un cancro serio, non ti fa stare al mondo in piedi. Ti fa sentire sempre una bambina a disagio e fuori luogo. Le radici della disistima sono spesso profonde e complesse. Vengono fuori da esperienze infantili, da confronti sociali, da ideali di bellezza imposti dai media. Si tratta di tutta quella “pesantezza”, come la definiva Simone Weil, che opprime l’uomo e lo allontana dalla sua vera natura. C’è sicuramente da chiedersi da dove nasca questa disistima, ma soprattutto c’è da ritornare allo sguardo di Dio.

Ti sei mai chiesto come Dio ti guarda? Che occhi ha su di te? La disistima si manifesta in tutta una serie di atteggiamenti emblematici e, spesso, sottovalutati. Avere un rapporto con il cibo non equilibrato, sfogando con maxi abbuffate il disagio oppure evitandolo perché è il nemico che ci impedisce di diventare come vorremmo. Incaponirsi a restare o a creare ambienti sempre competitivi, in cui emergere a tutti i costi o umiliare chi ci sta attorno. Non riuscire a smettere con certi vizi, dai più “semplici” a quelli più devastanti, come sostanze stupefacenti e pornografia. Non essere capace di gestire in maniera adulta le relazioni, in primis con i genitori, con un fidanzato, con gli amici. Non saper godere dei risultati degli altri, guardandoli sempre con invidia. 

Uno sguardo rinnovato sul corpo guarisce e libera dai sette vizi capitali che altro non sono che l’effetto di chi non si sente amato. E l’amore che ti fa guarire da tutto questo può essere solo quello infinito e misericordioso, di chi non ritratta mai la sua presenza. Di Qualcuno che di te è profondamente ed eternamente innamorato, perché ti ha creato, pensato, desiderato così come sei.

Respiro un attimo e spengo il cellulare. Chiudo gli occhi un istante e mi ricordo di Chi sono figlia. Ritorno allo sguardo da cui mi sento infinitamente amata e mi ripeto che, in fondo, vado bene così.




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