Cantico dei Cantici

di Assunta Scialdone, teologa

La verità sul Cantico è una. Ve la racconto…

27 Febbraio 2020

fedi

Adamo, nel guardare Eva comprende che lui è maschio e, soprattutto, quale sia il proprio destino: diventare uno con lei. Ecco l’eros creato da Dio che consiste nell’attrazione reciproca tra l’uomo e la donna generata dalla differenza sessuale, voluta da Dio come sua immagine. Questo è il messaggio del Cantico dei Cantici che ci è stato consegnato dalla Chiesa.

Al teatro dell’Ariston, Roberto Benigni ha proposto un’interpretazione “laica” del libro del Cantico dei Cantici, attestandosi, secondo lui, al suo significato letterale. Non è una notizia fresca di stampa ormai. Ne abbiamo sentito parlare in vario modo. Lui, Benigni, ha definito il poema “la canzone più bella”, una “canzone che canta l’amore fisico ed erotico” e che “non è mai stata fatta in televisione”. Ha poi tenuto a sottolineare il “secolare disagio” rabbinico prima e della Chiesa poi nei confronti della presenza del poema nel canone biblico, suggerendo che l’opera sia stata inclusa nella Bibbia perché ritenuta talmente bella da esser considerata sacra. L’improvvisato esegeta ha poi affermato che “il Cantico rappresenti tutte le coppie in tutte le parti del modo: uomo/donna, uomo/uomo; donna/donna. Tutte le persone umane che amano”. Inoltre ha invitato i presenti ad un’orgia comunitaria contraddicendo le sue stesse parole pronunciate qualche minuto prima nelle quali affermava che: “L’amore può essere un bisogno di sfogo fisico e quello è egoismo o un desiderio dell’altro che si costruisce e si conquista”. Inoltre ha alluso al fatto che teologi e rabbini si siano distratti, “forse dormivano”, quando hanno inserito nel Canone delle scritture un testo che – udite, udite – parla dell’amore tra un uomo ed una donna. Poi, si sarebbero risvegliati dando a questo libro un’interpretazione allegorica intravedendo in esso l’amore di Jhwh per il popolo d’Israele e, nell’ambito cristiano, l’amore di Cristo per la Chiesa. Infine ne ha declamato alcuni versi, presentandoli come scritti da “qualcuno che lavorava per l’eternità” affermando che “ogni parola è un diamante”.

“Forte come la morte” è il titolo del mio blog, un versetto, tratto e ripetuto più volte nel Cantico dei Cantici. L’amore è forte come la morte, contro la quale nessuno la può spuntare. Il vero amore allaccia due persone per sempre. Allaccia i corpi, ma più dei corpi e attraverso i corpi, allaccia le persone. Non c’è forza al mondo che possa spegnere l’amore. L’amore unisce per sempre oltrepassando la morte. Avverto il bisogno di ridire alcune cose, di dare voce alla verità che, purtroppo, è stata distorta da Benigni. Il canto e la danza svolgevano una funzione importante nell’antico Israele. Ogni avvenimento rilevante per la vita collettiva era celebrato con canti e danze. Non è dunque senza motivo che nella Tanak prima e nella Bibbia poi troviamo un considerevole numero di cantici considerati una forma alta di linguaggio per celebrare tutto ciò che usciva dall’ordinario. Il Cantico dei Cantici è attribuito al re Salomone. Appartiene ai libri sapienziali e ciò indica che l’amore è visto come qualcosa che richiede di essere vissuto con sapienza.

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Esalta la gioia, il piacere e la bellezza dell’amore tra un uomo ed una donna. Esso tuttavia porta un messaggio, un insegnamento che non mette d’accordo tutti gli studiosi. La maggior parte concorda nell’affermare che esso si presenta come una collezione di poesie amorose, una sorta di canzoniere. Recentemente una studiosa olandese ha riproposto la tesi dell’opera drammatica, già sostenuta nell’antichità da Origene: secondo lei il Cantico sarebbe da leggere come una continuous story, ambientata nell’harem di Salomone, che racconterebbe di una donzella, che a differenza delle altre, non ambisce ad andare a letto con il re, ma continua a pensare al giovane pastore di cui è perdutamente innamorata. In questo caso l’insegnamento dell’opera verrebbe ad essere che la fedeltà alla persona amata viene prima d’ogni altro interesse e valore. Tutto ciò non è però che un’ipotesi, anche se ben fondata, ma pur sempre un’ipotesi. Ciò che salta subito all’attenzione del lettore è l’importanza riconosciuta all’intimità fisica e allo scambio affettivo. L’uomo e la donna hanno bisogno del corpo per esprimere il loro amore. Il dialogo tra i due amanti esalta la bellezza fisica e l’amore sensuale legato al desiderio dell’altro e non al possesso egoistico. Dal poema emerge anche la valutazione positiva della bellezza: «Come sei bella amica mia, come sei bella! (…) come sei bello diletto mio, veramente incantevole» (Ct 1,15-16). Si tratta di una bellezza del corpo ammirata e non guardata come una trappola in cui è facile cadere. Diversamente nel libro dei Proverbi dove si ammonisce che: «Vana è la bellezza» (Pr 31,30).

In questo poema colpisce il fatto che l’unione uomo/donna non sia finalizzata alla fecondità ma, trovano maggiore risalto la dimensione della libertà, della gratuità e della gioia dell’amore che proviene da Dio. L’assenza della fecondità, però, non giustifica l’ipotesi errata che l’amore fosse concepito solo come appagamento dei sentimenti: tale assenza è da attribuire solo alle convenzioni letterarie. Tale ipotesi cade se solo si vuole pensare all’attesa del Messia che sarebbe nato da donna e al comando di moltiplicarsi racchiuso in Genesi. Il primo versetto recita: «Desiderio d’amore». Il desiderio amoroso libero dalla concupiscenza che diventa dono di sé. Libero dalla concupiscenza che, invece Benigni, sembrava sottolineare e poi rinnegare all’interno del suo monologo. Cos’è la concupiscenza? Quando questa entra nel mondo? Possiamo dire, in breve e con parole semplici, che essa scaturisce dal peccato originale commesso dai progenitori nel giardino di Eden. Il peccato originale non consiste nell’unione fisica di Adamo ed Eva perché essa è stata benedetta da Dio con il comando: “Crescete e moltiplicatevi”, benedizione, questa, pronunciata dal Creatore prima del peccato. Il peccato consiste nella superbia di mettersi al posto di Dio. La concupiscenza, afferma san Giovanni Paolo II nelle sue catechesi, entra nel mondo subito dopo aver mangiato il frutto della conoscenza del bene e del male, quando l’uomo e la donna avvertono l’istinto di coprirsi le parti intime. La concupiscenza, entrando nel mondo, cambia radicalmente lo sguardo di chi ci è di fronte. L’altro può vedermi come oggetto per appagare i propri istinti sessuali e non come un dono di Dio da amare e custodire. Ecco che i progenitori avvertono l’esigenza di coprirsi, per indirizzare lo sguardo dell’altro agli occhi e non ai valori sessuali. 

Nasce così il pudore (coprire le nudità intime) e da esso il desiderio dell’altro nella sua totalità di corpo, anima e spirito, non solo di corpo. Facendo un passo indietro, san Giovanni Paolo II tiene ad affermare che Dio Padre, quando creò Eva, creò anche l’eros. Attenzione l’eros, non l’erotismo decantato dal comico toscano. Cos’è l’eros? Adamo, nel guardare Eva, distingue ciò che “esiste in generale” (il creato) da ciò che “esiste per lui”. Il primo uomo, nella differenza sessuale, comprende che lui è maschio e, soprattutto, quale sia il proprio destino: “Diventare uno con Eva”. Ecco l’eros creato da Dio che consiste nell’attrazione reciproca di Adamo ed Eva generata dalla differenza sessuale, voluta da Dio come sua immagine, mediante la quale il Creatore attira gli uomini a sé. In Adamo ed Eva, c’è un linguaggio che non hanno creato e che riecheggia nel libro del Cantico, esso è il linguaggio dell’eros radicato nella loro natura, che li invita a riceversi mutuamente dal Creatore, per potersi così donare. Ecco perché, nell’unione fisica e spirituale (il corpo non si separa dall’anima), proviamo scintille d’eternità. San Giovanni Paolo II affermava che il talamo nuziale diventa per gli sposi altare sopra il quale essi celebrano il sacramento ricevuto donandosi lo Spirito Santo: una vera e propria “epiclesi”. Ecco perché nel Cantico si canta l’amore, quello vero. Attraverso la donazione dei due, si svela l’Amore perfetto di Dio racchiuso nella coppia perché “maschio e femmina li creò, ad immagine e somiglianza di Dio”. Il comico, paradossalmente, attribuendo la natura erotica al Cantico ha seppellito l’eros in esso racchiuso. Dopo aver notato che nel Cantico non si canta l’amore tra uomo/uomo e donna/donna ma l’amore tra uomo e donna, quello voluto da Dio fin dal principio, alla luce di quanto detto finora, possiamo affermare che i rabbini non “sonnecchiavano” e nemmeno i teologi.

Nel Cantico, formato da 117 versetti, non si trova alcuna menzione al Dio d’Israele. Dobbiamo dedurre che l’amore è concepito come una realtà interamente profana, con la quale Dio non ha nulla a che fare? Penso proprio di no! Nell’antico Israele la gioia e l’amore erano avvertite e vissute come un’esperienza religiosa, un rendere presente Dio. Per tale motivo non si avvertiva la necessità di menzionarlo nei cantici. C’è da precisare che nell’ambiente ebraico il Cantico diventa uno dei testi principali della mistica giudaica (kabbala). Esso entra a far parte delle cinque meghillot (rotoli), che contengono i testi proclamati nelle grandi feste ebraiche. Uno dei poemi delle quattro notti, in riferimento alla notte pasquale, è proprio il Cantico. 

Il comico ha lasciato intuire che i rabbini prima e la Chiesa dopo abbiano tenuto nascosto il vero significato del Cantico perché avevano paura dell’amore passionale e carnale ritenendo questo meraviglioso testo sacro una sorta di Kamasutra erotico. Decantando il testo sacro, ha riportato un verso del Cantico che per lui risulta meraviglioso, mentre per la Chiesa sarebbe da censurare e mai lo avrebbe potuto recitare. Il verso in questione è il seguente: «La sua mano sinistra è sotto la mia testa, con la destra mi stringi nell’amplesso». Un verso, questo, che la Chiesa recitava tutti i sabato come antifona all’ufficio delle letture dedicato a Maria Vergine prima della riforma della liturgia. Un verso che veniva recitato non solo dal clero ma anche dai monaci e dalle monache presenti in tutti i monasteri del mondo. Esso veniva recitato rigorosamente in latino: «Laeva eius sub capite meo et dexetera illius amplexabitur me». Altro che tabù o “secolare disagio” della Chiesa. Era ritenuto idoneo per esprimere l’unione della Vergine Maria con il Signore. Il Cantico è un libro d’amore pulito, senza concessioni a pratiche di erotismo, meno che meno si riferisce ad amori omosessuali o saffici tanto combattuti dal popolo ebraico perché propri delle religioni politeiste dei popoli circostanti (si pensi alla prostituzione sacra e al culto al dio Baal). Esso si presenta come il “cantico del corpo” in quanto, in oriente, il corpo esprime la totalità della persona. Il corpo non si percepisce come un accessorio che imprigiona l’anima, ma “si è il proprio corpo”. 

Il libro del Cantico, evidentemente, non è stato inserito per “caso” all’interno del canone delle Scritture in maniera distratta, ma esso risulta essere la chiave di volta per comprendere tutta la Scrittura. È in quest’ottica che le “sue parole sono come dei diamanti” meravigliosi, in questo ha avuto ragione Benigni. Non posso non affrontare la questione dell’interpretazione allegorica del Cantico dei Cantici tanto maltrattata dal comico. Questa linea interpretativa è già del giudaismo rabbinico e non solo. Il fatto che nelle grotte di Qumran siano stati trovati frammenti del Cantico fa pensare che, anche tra gli Esseni, il libro fosse interpretato in senso allegorico. L’opera si leggeva e si continua a leggere come celebrazione dell’amore tra il Signore ed Israele. I Padri della Chiesa hanno ripreso la lettura allegorica applicandola, però, all’amore di Cristo per la Chiesa. Tale linea è stata dominante lungo tutto il Medioevo e nei secoli successivi. Perché? Il ricorso all’allegoria era forse motivato da pregiudizio sessuofobico? Non mi sembra che il senso letterale del Cantico apparisse a tal punto urtante per la sensibilità dei rabbini e dei Padri della Chiesa e non possiamo pensare che per questa principale ragione si siano volti a cercarne il senso allegorico. Il fatto è che tale senso a loro appariva più congruo ed adeguato ad esprimere l’amore del Signore per il suo popolo o di Cristo per la sua Chiesa. Non è ragionevole pensare che per tantissimi secoli i Rabbini prima e la Chiesa dopo non abbiano capito nulla di questo libro biblico e che solamente adesso ci si sia resi conto del suo “autentico” messaggio. Lo Spirito Santo si sarebbe messo a soffiare solo ai giorni nostri? Il rispetto del senso allegorico non deve, però, indurre a chiudere gli occhi sul senso letterale. Un incoraggiamento in questo senso viene da san Giovanni Paolo II, il quale nelle sue catechesi sull’amore umano ha spiegato il Cantico come espressione dell’amore tra l’uomo e la donna alla luce dell’ermeneutica del dono e non come allegoria dell’amore di Dio per il suo popolo o tra Cristo e la Chiesa. Secondo le parole del Pontefice: «Il Cantico dei Cantici costituisce un ricco ed eloquente testo della verità sull’amore umano» (Uomo e donna lo creò, 432). Il fatto che sia testimone della verità dell’amore umano non esclude e non impedisce che sia, allo stesso tempo, testimone della verità del rapporto che Dio continua a intrattenere con il suo popolo.

In conclusione vorrei riportare la meravigliosa lettura che Mons. Brambilla fa del capitolo 20 del Vangelo di Giovanni in parallelo al Cantico dei Cantici. In Giovanni 20 viene raccontata la scena del sepolcro vuoto presso il quale troviamo Maria di Magdala che piange perché, come l’amata del Cantico, ha perso l’Amato del suo cuore. «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: “Avete visto l’amato del mio cuore?”» (Ct 3,1-3). A differenza della donna del Cantico che si rivolge alle guardie, qui sono gli Angeli che domandano a Maria il motivo del suo pianto. Maria dice che persino il corpo dell’amato hanno portato via e non sa dove. Maria non si scoraggia, cerca nel giardino il suo Amato con una passione meravigliosa intrisa di desolazione perché pensa di averlo perso per sempre. Mentre gli Angeli le chiedono: «Donna perché piangi?», ella comprende che per poterlo trovare deve cambiare direzione. Finché lo cerca presso il sepolcro, nel luogo del passato, non può trovarlo. È necessario «volgersi indietro» (Gv 20,14) per riconoscere Gesù. Non basta l’inversione dello sguardo occorre che l’amato chiami di nuovo. L’Amato chiama: «Donna perché piangi? Chi cerchi?». Le chiede chi cerca e questa è una domanda che gli Angeli non le rivolgono. Egli si preoccupa della sua felicità. È la stessa domanda che era risuonata nel giardino del Getsemani quando Giuda con i soldati erano andati a cercare Gesù per consegnarlo (Gv 18,4.7). Gli occhi della donna sono ancora chiusi e non riesce a vedere Gesù. Ella si trova nel giardino, come la donna del Cantico, luogo della ricerca appassionata, della rincorsa all’amato, dell’incontro con lo Sposo. La donna lo scambia per il giardiniere e lo ferma per avere delle informazioni come la donna del Cantico che ferma tutti per ritrovare lo Sposo. Anche se non lo riconosce, il linguaggio dell’amore tradisce qualcosa di più quando lo chiama, inavvertitamente, “Signore”. «Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto ed io andrò a prenderlo». Qui troviamo racchiuso il desiderio dell’Amore, lo stesso riportato nei primi versi del Cantico. Il desiderio dell’amore che si trasforma nel desiderio dell’incontro, per incontrare il quale ella deve attendere che l’Amato la chiami. Lo immagina ancora rintracciabile in un luogo: “Dove lo hai posto?”. Lo deve, invece, ritrovare nella voce che viene da “altrove”. Per questo l’amata del Cantico attende la “voce” del diletto: «Una voce! Il mio diletto!» (Ct 2,8). Il Risorto la chiama per nome. Maria si volge nuovamente, non guarda più indietro, non resta ostinatamente attaccata al sepolcro, al passato, al regno della morte. Ella si volge totalmente passando dal desiderio dell’amore alla realtà dell’incontro pieno e totale con l’Amato del suo cuore.

Benigni ha cantato un Poema d’amore con forti allusioni erotiche, spogliandolo del suo alto significato. È attraverso l’amore dell’uomo e della donna, della loro corporeità, che si può scorgere l’immagine di Dio Creatore e assaporare nel “piacere carnale” l’amore passionale di Dio per noi. Un piacere che è incarnato nella corporeità, ma, allo stesso tempo, supera la carne e diventa sublime, glorioso, eterno, mistico. Nella Quaresima che viviamo, sulla scia di tali considerazioni, chiediamoci: chi cerchiamo? Noi stessi o il Signore, l’Amato del nostro cuore? Se è Lui che cerchiamo purifichiamo il nostro sguardo preparandoci all’incontro con Lui nella Pasqua di Risurrezione. Volgiamoci come Maria, distaccandoci dal passato di morte e dalle mode e voci del mondo che ci confondono. Sforziamoci di sentire, tra le mille voci che ci giungono alle orecchie, il suono dolce della voce dell’Amato: ci faccia sobbalzare il cuore.




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