La Libertà è il grembo dell’amore

16 Aprile 2022

Cristo Crocifisso

La morte di Gesù sulla croce racchiude solo l’espiazione del peccato? Se fosse solo così, come conciliare l’immagine di un Dio misericordioso con quella di colui che decide di far uccidere il proprio figlio per placare la propria collera?

Quando pensiamo al termine sacrificio nella nostra mente affiorano, immediatamente, azioni come rinunce e mortificazioni finalizzate ad espiare azioni peccaminose per allontanare, così, la collera ed il castigo di Dio. Al termine sacrificio, poi, leghiamo immagini cruenti: altari insanguinati, lame, animali sgozzati. È l’immagine dell’ecatombe che ci arriva dai poemi greci. A partire da questo scenario, impresso nella nostra mente, anche la morte di Cristo sulla croce è legata, a volte, esclusivamente ad un sacrificio cruento. La morte del Figlio di Dio, a volte, è percepita solo come mezzo per espiare la colpa originale e placare l’ira di Dio. La morte di Gesù sulla croce racchiude solo l’espiazione del peccato? Se fosse solo così, come conciliare l’immagine di un Dio misericordioso con quella di colui che decide di far uccidere il proprio figlio per placare la propria collera? Per cercare di proporre qualche risposta a queste domande provocatorie partiamo dall’analisi dell’etimologia del termine sacrificio che deriva dal latino sacrificare, composto da sacrum, azione sacra e facere, fare. Sacrificio, sacrificare significa compiere un’azione sacra. Si tratta, dunque, del compimento di un’azione che celebra il sacro, celebra ciò che è importante e dà un senso a noi stessi e alla vita.

Il termine sacro, etimologicamente, significa separato, nascosto di là dal velo. Stando all’etimologia dei termini possiamo dunque dire che il sacrificio non porta in sé il significato di dolore, crudeltà, ma un significato di donazione. Tale accezione di donazione libera è confermata nella lettera agli Ebrei 10, 5-6 dove si legge: «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato». Come si può notare la categoria sacrificale, così come è presente nell’immaginario collettivo, non è presente nell’orizzonte cristiano, pur avendo dei richiami nella figura dell’agnello sacrificale.

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Nella cena pasquale, infatti, non troviamo la categoria del sacrificio, ma quella del dono. Dopo la lavanda dei piedi, dopo che Giuda è uscito dal Cenacolo, Gesù sembra donarsi liberamente ai suoi che stanno a mensa con lui. Le parole pronunciate da Gesù secondo il racconto di Luca infatti, suonano così: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi» (Lc 22,19). L’evangelista non utilizza il termine sacrificio ma dato, donato per voi. Tale interpretazione è ripresa e confermata in 1 Corinzi 11, 24 dove si legge: «Questo è il mio corpo, che è per voi».

Cristo, dunque, facendosi pane spezzato, accetta di essere ferito di una ferita d’amore, che sublimando il dolore, diventa momento di dono radicale: “Prendete, mangiate e bevete”. In questi verbi Gesù non si appartiene più. La ferita inferta dall’amore diviene apertura di dono, azione sacra.

Rileggendo la mistica cena nell’ottica della categoria del dono, appare evidente che essa compie l’incarnazione, perché tutto il vissuto del Cristo si concentra in essa, nel dono di sé nel pane e nel vino per compiere l’una caro con l’umanità. Diventa più chiara la missione del Verbo, che si è incarnato per essere mangiato. Pensando all’incarnazione non si può non scorgere una similitudine tra l’Eucaristia e Maria: come il corpo di Maria che contiene dentro di sé il corpo del Verbo, così l’Eucaristia, nel segno del pane e del vino, contiene in sé ciò che in realtà la contiene, cioè il Cristo Risorto. Il pane che Cristo offre è la sua carne presa da Maria, il vino è il sangue anch’esso preso da Maria.

Tornando alla cena pasquale, va notato che la consegna del Cristo non avviene in modo idilliaco ma in modo drammatico. Cristo ha alle spalle il tradimento di Giuda, di fronte a sé il futuro rinnegamento dei suoi e la sua imminente condanna a morte da parte del potere religioso e politico. Di tutto ciò, almeno negli ultimi giorni, Cristo è pienamente consapevole e ciò rende più autentico e lucido il suo donarsi, potremmo dire un donarsi nella nuzialità.

Cristo sembra sfruttare il tradimento di Giuda quasi come se giocasse d’anticipo. Mentre questi lo consegna, Cristo lo anticipa e decide di consegnarsi spontaneamente ai suoi. Dentro il tradimento di Giuda, sembra trovarsi, seppur celato, il gesto di Tràdere (tramandare se stesso) se stesso da parte del Cristo. Egli sa che occorre entrare nel dramma e andare fino in fondo, fino a quella condizione e situazione che il peccato determina. Colui che non ha commesso peccato, Dio l’ha trattato da peccato per noi (2 Cor 5, 21). Cristo trasforma la dannazione nello spazio della donazione. Egli scende nel mistero oscuro della morte, per trasformarla dal di dentro. H. U. von Balthasar in Teodrammatica, (V. L’ultimo atto, Jaca Book, 266) scrive: «È la presa o l’abbraccio con cui il Figlio di Dio afferra come da sotto, con l’esperienza dell’abbandono di Dio in croce, tutto il peccato dell’umanità e le sue conseguenze, per realizzare così, (…) la redenzione». È come se Cristo abbracciasse la parte più oscura dell’umanità, la parte del peccato, dell’assenza di Dio per renderla una sola cosa con se stesso, sposandola a sé. E queste sono vere nozze!

Cristo non si consegna nel vuoto, ma nelle mani e alla bocca di quelli che insieme costituiscono la sua piccola famiglia, la sua comunità. Possiamo intravedere in questo consegnarsi un gesto carico d’intimità e passionalità che coinvolge anche i sensi del corpo: Cristo si fa uno con quelli che lo accolgono pur nel loro stato di peccato e di rinnegamento. Questo dono nuziale viene celebrato e consumato dentro un tradimento che non scalfisce l’amore. L’amore nuziale di Cristo è tale che ama dentro e oltre la morte: è forte almeno come la morte. Questa, anzi, diviene cifra dell’amore totale e della dedizione più completa. È attraverso questo sacrificio di morte d’amore che Cristo esprime l’amore totale per la Chiesa sua amata sposa. La morte di Cristo è, dunque, morte d’amore.

Il sacrificio di Cristo si presenta come un gesto d’amore oblativo libero. Egli sceglie di amare la propria Sposa, nonostante il peccato che l’attanaglia portandola lontana dall’Amato. Questa azione sacra, separata, nascosta al di là del velo, con Cristo diventa alla portata di tutti. I Vangeli, alla morte di Gesù, annotano che il “velo del Tempio si squarciò nel mezzo” quasi a voler indicare che il sacro si unisce a ciò che è peccato. Ciò che era separato, sacro, diventa peccato per rendere l’umanità capace di amare dello stesso amore di Dio. 

Di fronte allo squarcio del velo, come non pensare al sacramento del matrimonio e alla formula del consenso? Quando gli sposi pronunciano le parole “io accolgo te”, intendono affermare che l’altro è un dono da accogliere e che essi stessi si fanno dono. Accogliere, infatti, significa fare spazio all’altro. Fare spazio significa morire a se stessi e, dunque, sacrificarsi per amore dell’altro. In questo caso, come nel caso di Cristo, il sacrificio è accolto nella benevolenza e nell’amore che rende leggera e gradevole la ferita d’amore. Se gli sposi si accolgono reciprocamente ciò sta a significare che essi accolgono anche tutti i loro piccoli o grandi rinnegamenti. Gli sposi, attraverso il sacramento delle nozze e lo squarcio del velo del Tempio, sono resi capaci di assumere ed amare anche i rinnegamenti che quell’amore può portare con sé. 

Come due amanti che, travolti nel vortice della passione, non fanno calcoli e non si accorgono delle ferite che producono i dardi d’amore, allo stesso modo Cristo, amante perfetto, nel suo infinito amore decide di assumere in sé la melma del peccato: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22, 15). Cristo mette a nudo il suo amore passionale attraverso il desiderio ardente di donarsi per poi unirsi all’Amata. Dall’incarnazione in poi Egli vive come una sorta di fidanzamento con l’umanità preparando la sua sposa all’unione piena che avverrà sul talamo della Croce. Proprio come fanno (dovrebbero fare) due amanti che vengono invasi da un desiderio ardente di diventare una cosa sola attraverso il corpo, l’anima e lo spirito e che, nel periodo di fidanzamento, si preparano a vivere l’amore di donazione pieno dopo il sacramento delle nozze ponendo sull’altro il sigillo di eterna appartenenza reciproca.

Gesù accoglie liberamente la croce consegnandosi volontariamente alla passione. Nelle parole del Cristo non c’è obbligo, ma libera adesione: «Allora ho detto: Ecco, io vengo (…) per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10, 7).

 La libertà è il grembo dell’amore di donazione e non la disperata conquista dell’autonomia. La libertà di accogliere l’altro invita gli sposi a percorrere i sentieri del dono e del servizio proprio come Cristo ci mostra nell’ultima cena. Se manca l’essenza dell’amore, allora la relazione e il Noi coniugale consacrato rischiano di diventare un gioco di sentimenti, oppure la disperata ricerca e affermazione di se stessi, come purtroppo vediamo in tanti matrimoni.

Chi ama, come Gesù ci indica, invece, non misura la vita con quello che riceve o potrebbe ricevere dall’altro. Quello che si riceve all’interno dell’amore coniugale risulta essere sempre poco rispetto alle nostre attese. Se poi ci lasciamo imprigionare dall’egoismo, non dando spazio all’altro, misurando l’amore con quello che riceviamo, entriamo in una logica commerciale. Nell’amore come scambio. Questa logica impoverisce la relazione non facendo mai sbocciare l’amore vero. Si rischia così di ritrovarsi, dopo anni, a vivere senza più avere niente da dire e da dare. E ovviamente non ricevendo niente di ciò che abbiamo sempre aspettato dall’altro. 

L’amore oblativo di Cristo ci porta a vivere la fedeltà coniugale che è disposta a scendere nella melma del peccato e, a volte, nonostante i piccoli o grandi tradimenti, conduce gli sposi a crocifiggere la volontà di Amare uno solo – il coniuge – e Dio in lui. Tutto ciò risulta possibile grazie all’amore fedele di Dio per noi. Gli sposi cristiani, alla luce del dono d’amore di Cristo, più che difendere la loro felicità possono imparare a donare la vita goccia dopo goccia perché, donandola, si permette agli altri di ricevere vita. Non si ama veramente se non si è disposti ad amare anche le amarezze così come ha fatto Cristo. La felicità arriverà postuma. Inaspettata. Come la Risurrezione per gli apostoli increduli.

Se si decide di sposarsi veramente in Cristo e provare ad amare come Lui ci ha indicato, allora facciamo nostre le parole che Cristo fa risuonare dal talamo nuziale della croce, esse sono parole di per-dono: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». Nella vita coniugale il male si insinua con la nostra complicità, ma noi non dobbiamo dargli spazio alimentandolo con parole e gesti. Si riesce a perdonare grazie al silenzio, all’umiltà e all’ascolto della Parola. Se Cristo ci ha resi capaci di amare di questo amore allora non dobbiamo indietreggiare di fronte ai tradimenti e alle sofferenze che l’amore umano ci consegna, ma accoglierli nell’ottica della donazione e dell’oblazione di sé stessi, nell’ottica del sacrificio. Ci si offre così la possibilità di gustare il vero amore che resta e non scappa di fronte alla sofferenza. Un amore che resta ai piedi della croce decidendo di scendere nel sepolcro con l’Amato per poi risorgere con Cristo ed in Cristo.

Di fronte alla straordinaria bellezza dell’amore di Dio l’umanità resta ammutolita ed incredula. Il sabato santo diventa scrigno di questo silenzio assordante dell’Amore che decide di amare il non amore. Il sabato racchiude anche l’attesa dell’amata che sperimenta l’assenza dello Sposo: «Quando lo sposo sarà loro tolto, allora digiuneranno» (Mt 9, 14-15). La Chiesa si ritrova ad essere l’amata smarrita che porta nel cuore il desiderio di riavere lo Sposo con sé e per sé, per donarsi a Lui. 

Per strade tutte sue, forse persino inconsapevoli, Battiato aveva scritto qualcosa di simile quando ricorda che «… ho bisogno della Tua presenza, per capire meglio la mia essenza». Come quando ricorda che «Questo sentimento popolare, nasce da meccaniche divine, un rapimento mistico e sensuale». E, infine: «Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri. Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane. Fare come un eremita che rinuncia a sé (sacrificio – dono). (…) Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male. Essere un’immagine divina di questa realtà».




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Assunta Scialdone

Assunta Scialdone, sposa e madre, docente presso l’ISSR santi Apostoli Pietro e Paolo - area casertana - in Capua e di I.R.C nella scuola secondaria di Primo Grado. Dottore in Sacra Teologia in vita cristiana indirizzo spiritualità. Ha conseguito il Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Da anni impegnata nella pastorale familiare diocesana, serve lo Sposo servendo gli sposi.

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