Il Vangelo letto in famiglia

I QUARESIMA – Anno B – 18 FEBBRAIO 2024

Contro i deserti della vita, avere un cuore lieto

C’è un’espressione francescana che racchiude appieno questo concetto: la perfetta letizia. Francesco invitava i suoi frati alla “perfetta letizia” e cioè a saper gioire anche dei deserti, anche delle sofferenze. Dobbiamo imparare a offrire a Dio, come penitenza veramente gradita, le sofferenze della vita, i deserti che attraversiamo, perché siamo stati inseriti in una vita vera, siamo fatti di carne e la carne può soffrire, può fare cattivi pensieri, può compiere il male.

Dal Vangelo secondo Marco
Mc 1,12-15

In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

IL COMMENTO

di don Gianluca Coppola

Con questa domenica, dopo una forte introduzione a questo Tempo con il Mercoledì delle Ceneri, entriamo finalmente nel vivo del nostro percorso quaresimale. Sappiamo bene che il Tempo di Quaresima è tempo di penitenza, ma ancora oggi c’è tanta confusione su quale sia la penitenza gradita al Signore. È forse la penitenza dei tristi e degli sconfortati? La penitenza degli abbattuti o di chi non apprezza la propria vita? Assolutamente no, non è questa la penitenza che Dio ci richiede; al contrario, Dio desidera dei cuori riconciliati, dei cuori che sappiano affrontare il diluvio e il deserto.

Approfondiamo allora la Parola di Dio che la Liturgia ci propone per questa domenica così importante. «In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto». L’originale greco del Vangelo utilizza un verbo per indicare un’azione forzata, cioè Gesù viene proprio preso e portato nel deserto dallo Spirito Santo, come se la volontà di Dio per Gesù fosse quella di fare in modo che si ritirasse nel deserto, proprio in quel momento così importante per Lui, poiché era all’inizio del suo ministero pubblico e dunque di lì a poco avrebbe cominciato ad annunciare il Regno di Dio. Infatti, il versetto dice che Gesù andava per la Galilea e proclamava: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino». La preparazione a questo annuncio e alla vita nuova, la preparazione alla redenzione di Israele è proprio il deserto.

Pertanto, la penitenza che Dio gradirebbe molto di più in questa Quaresima, da parte nostra, sarebbe proprio l’umiltà di riuscire a vedere i deserti della nostra vita, della nostra anima, affinché il tempo della Grazia si compia dentro di noi. Probabilmente abbiamo invertito i termini, siamo arrivati a credere che la penitenza che Dio ci chiede sia stare male o che Lui sia contento quando soffriamo. Alcuni fioretti, alcuni digiuni, purtroppo anche alcune preghiere, perché talvolta la preghiera può diventare un’ossessione, si trasformano in azioni forzate che portiamo avanti convinti che a Dio faccia piacere vederci così affranti, così tormentati. Ma il Profeta Isaia, invece, dice: «Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. […] È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?». Dio, allora, desidera una penitenza compiuta con cuore lieto. La massima penitenza che un cristiano può fare è quella di offrire a Dio le proprie sofferenze con cuore lieto. C’è un’espressione francescana che racchiude appieno questo concetto: la perfetta letizia. Francesco invitava i suoi frati alla “perfetta letizia” e cioè a saper gioire anche dei deserti, anche delle sofferenze. Dobbiamo imparare a offrire a Dio, come penitenza veramente gradita, le sofferenze della vita, i deserti che attraversiamo, perché siamo stati inseriti in una vita vera, siamo fatti di carne e la carne può soffrire, può fare cattivi pensieri, può compiere il male. Allora, la vera penitenza sarebbe quella di trasformare i nostri deserti in opportunità di redenzione. Nei Vangeli di Matteo e Luca il racconto della tentazione nel deserto è più dettagliato; Marco, al contrario, non lascia spazio a tante descrizioni e riduce all’osso il messaggio, ma lo fa proprio per farci comprendere quanto entrare nei deserti della nostra vita sia necessario.

Gesù, allora, una volta sospinto nel deserto, «rimase quaranta giorni». Gesù rimane nel deserto, non si oppone, non si ribella, resta nel deserto perché comprende che quel luogo ha qualcosa da dirgli. Ebbene, non tutte le cose brutte, non tutte le aridità, le sofferenze, le angosce che viviamo giungono per la nostra distruzione, ma quasi tutte vengono sicuramente per dirci qualcosa. Il deserto che stai vivendo oggi sta cercando di dirti qualcosa su di te, qualcosa sulla tua vita, ti sta dicendo che probabilmente c’è qualcosa da fare per rendere ancora bella la tua esistenza. Siamo abituati, invece, che al primo allarme di sofferenza facciamo di tutto per allontanarla, non ci fermiamo a riflettere. Ma se non affrontiamo la sofferenza, allora il dolore si accumula e il peso diventa troppo grande da sopportare. Una volta, guardando un documentario sugli insetti, scoprii che esiste un particolare tipo di scarabeo che accumula i suoi escrementi, fino a ritrovarsi a dover trasportare una massa di escrementi che è ancor più pesante del suo peso specifico. Ecco, noi assomigliamo a questo scarabeo, perché nonostante la nostra piccolezza, ogni volta che non affrontiamo i nostri deserti, ogni volta che non diamo un nome alle nostre sofferenze, il dolore si accumula sempre di più sulle nostre spalle, diventa sempre più pesante.

Gesù, allora, rimase nel deserto, forte di una Parola che dovrebbe essere fonte di consolazione anche per noi. Nella Lettera agli Ebrei è scritto che nessuno viene tentato al di sopra delle proprie forze. Sono parole bellissime, dovrebbero essere il motto della nostra vita, dovremmo ripeterle nella nostra mente ogni volta che siamo nella sofferenza, dovremmo accordarci con la Parola di Dio: non possiamo subire una tentazione più grande delle nostre forze. Impariamo a vivere con questa convinzione, certi che non ci sarà niente capace di distruggermi perché Dio è con me, mi fa affrontare la sofferenza guardandola negli occhi, mi dona il coraggio che non ho. Dice Sant’Ignazio di Loyola negli esercizi spirituali che dare un nome agli spiriti maligni che si aggirano dentro e intorno a noi è necessario. Una volta che hai dato un nome alla tua sofferenza, il dolore non può fare altro che sparire, perché sei tu a dominarlo, sei tu a comandare su quel deserto, non è più il deserto che comanda su di te. Infatti, nel deserto Gesù stava con le bestie selvatiche. Queste bestie selvatiche, evidentemente, di fronte a Gesù venivano addomesticate, le aveva chiamate per nome. È ciò che succede anche a noi quando impariamo a rimanere nel deserto, quanto diamo un nome alla nostra sofferenza; così facendo, riusciamo a dominare le bestie selvatiche che vivono dentro di noi, torniamo a essere padroni di noi stessi. Gesù, allora, ci chiede di entrare insieme a Lui in questo deserto per dominarlo perché «il tempo è compiuto». Il tempo è compiuto quando riusciamo a superare il deserto. La domanda da porsi, dunque, all’inizio di questa Quaresima è la seguente: qual è il deserto, il diluvio che devo affrontare in questo momento? Una volta identificato, decidiamo di affrontarlo per compiere il tempo della nostra redenzione, della nostra liberazione. In fondo, tutta la vita è un processo di liberazione, siamo in questo mondo per diventare persone libere. Il Paradiso, dopotutto, è riconoscersi riconciliati con sé stessi, con il mondo e con Dio, e questo Paradiso deve iniziare oggi. Decidiamo, senza paura, di affrontare i nostri deserti, di smettere di scappare, di smettere di voler affrontare il diluvio da soli con le nostre braccia. Se Noè non avesse costruito l’arca, sarebbe morto annegato. Pertanto, quando arriva il diluvio, cosa facciamo? Costruiamo un’arca o tentiamo di scappare? Entriamo allora nel nostro diluvio, nel nostro deserto, guardiamolo negli occhi per poterlo affrontare e diventare finalmente liberi.




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Gianluca Coppola

Gianluca Coppola (1982) è presbitero della Diocesi di Napoli. Ha la passione per i giovani e l’evangelizzazione. È stato ordinato sacerdote il 29 aprile 2012 dopo aver conseguito il baccellierato in Sacra Teologia nel giugno del 2011. Dopo il primo incarico da vicario parrocchiale nella Chiesa di Maria Santissima della Salute in Portici (NA), è attualmente parroco dell’Immacolata Concezione in Portici. Con Editrice Punto Famiglia ha pubblicato Dalla sopravvivenza alla vita. Lettere di un prete ai giovani sulle domande essenziali (2019) e Sono venuto a portare il fuoco sulla terra (2020).

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