Il Vangelo letto in famiglia

IV QUARESIMA – Anno B – 10 MARZO 2024

Credere nell’esistenza di Dio non è sufficiente

Credere non significa partecipare a dei momenti, o durante la giornata recitare quattro, cinque preghierine una dopo l’altra. Credere significa fare della propria esistenza il luogo dove Dio è libero di agire, dove ci lasciamo guardare da Dio per quello che siamo, senza maschere, finzioni, senza dover dimostrare niente a nessuno. Credere è quando ci lasciamo illuminare dalla Luce di Dio proprio nelle nostre tenebre.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 3,14-21

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

IL COMMENTO

di don Gianluca Coppola

La quarta domenica di Quaresima è detta anche Domenica laetare, che significa “domenica della letizia” ed è il giorno in cui siamo invitati, addirittura con un imperativo latino, a essere lieti nel Signore perché la Pasqua è vicina, la nostra liberazione è vicina.

Nel passo del Vangelo di questa domenica, Gesù ci introduce a un’altra letizia e lo fa attraverso il famoso dialogo con Nicodemo. Siamo nel capitolo tre del Vangelo di Giovanni, ma il dialogo tra i due comincia già prima. Nicodemo, dice prima il Vangelo, era un dottore della Legge, un membro del sinedrio, un esperto di Dio, lo potremmo paragonare a un prete dei giorni nostri; era uno che doveva sapere del Signore ogni cosa, anche perché la Legge di Dio, all’epoca, andava imparata a memoria.  Nicodemo va da Gesù di notte, col favore delle tenebre, quando cioè si fanno le cose sbagliate, quando si fanno le cose che nessuno deve vedere e capire. Nicodemo va da Gesù perché si vergogna, perché ha un’immagine da difendere, perché se lo avessero visto lo avrebbero ritenuto l’ennesimo fanatico che seguiva Gesù. Nicodemo, invece, ci va di notte perché è assetato di verità, perché cerca la pace, la gioia, perché nella vita voleva essere felice, ma si sentiva bloccato dalle sue tenebre, da tutto quello che era la sua vita in quel momento, che lui non riusciva a cambiare. Ecco, Nicodemo assomiglia proprio a me e a te.

Gesù, nel passo del Vangelo in questione, cita dei versetti che fanno riferimento a Esodo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto». Questo serpente viene innalzato perché il popolo, dopo una grave disobbedienza, viene colpito dal flagello dei serpenti, e dinanzi a una situazione simile, tutti potremmo dire che sicuramente si trattava di una punizione di Dio, che è cattivo e dunque flagella il suo popolo. Ma se il popolo non aveva ascoltato il suo Dio, di chi era la colpa? Certamente non di Dio, che non avrebbe mai voluto che il suo popolo incappasse nei serpenti. Vedete, questo è ciò che si verifica in tutte le dinamiche della nostra vita: quante volte abbiamo pensato: “Signore, perché mi hai fatto incontrare questa persona?”. Ma forse, il Signore non c’entra proprio niente con il tuo incontro, forse sei andato nella direzione opposta a quella che ti indicava Dio. Il popolo, allora, dopo una grave disobbedienza, si ritrova morso dai serpenti e Dio chiede a Mosè una cosa strana, ovvero di costruire un’asta e mettere all’estremità un serpente di rame: tutti coloro che venivano morsi da un serpente, guardando il serpente di rame sarebbero stati guariti. Cosa vuol dire tutto questo? Gesù ci sta dicendo di guardare i nostri errori, i nostri peccati, ci chiede di guardare dove siamo inciampati, ci chiede, come fa con Nicodemo, di smettere di difendere a tutti i costi la nostra immagine, ci invita a riconoscerci una volta e per tutte dei peccatori. Chiamiamo per nome questo serpente, chiamiamo per nome il peccato, senza guardare gli altri, ma guardando dentro noi stessi. L’unico modo per sconfiggere la tenebra dentro di noi è guardarla in faccia, darle un nome, illuminarla. Se noi invece spendiamo l’ottanta per cento delle nostre energie a difendere la nostra immagine, come faceva Nicodemo, non avanziamo mai, i serpenti vivranno sempre dentro di noi. Non solo, ma quel serpente innalzato su un’asta è segno di Gesù che sarà innalzato sulla croce, per sconfiggere la morte. E per farlo, passa attraverso la valle della morte per condurci tutti alla Resurrezione, è questo che celebreremo fra poco, ma bisogna passare attraverso questo peccato, attraverso questa tenebra, attraverso il riconoscimento dei serpenti che ci hanno morso. Gesù ci sta invitando a un cammino che sia fatto nella verità, che non sia fatto di sterili parole.

Solo dopo aver messo Nicodemo dinanzi alle sue fragilità, Gesù parla di amore. È come se gli dicesse: “Nicodemo, guarda quanto ti amo, sono disposto perfino a mettere le mani nella pasta delle tue storture, dei tuoi peccati. Non ti chiedo di riconoscerti peccatore perché ti devi umiliare, ma perché ti voglio innalzare”. Gesù infatti dice: «Dio ha tanto amato il mondo». Nicodemo, allora, comincia a capire e pensa che non serve a niente indossare una maschera anche con il Signore, perché Dio ci ha tanto amato e ci ama ancora, e se l’amore è reale sconvolge sempre l’esistenza di chi lo vive. L’amore vero, quello di Dio, quando entra nella vita di una persona distrugge la vita passata, in senso buono, per ricostruirla ed è una cosa meravigliosa. «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Allora, potremmo dire che siamo salvi, perché tutti noi crediamo nell’esistenza di Dio, no? Ma ormai lo abbiamo detto tante volte: credere nell’esistenza di Dio non è sufficiente, perfino il diavolo ci crede, ci crede più di noi perché ha visto Dio, sa come è fatto, eppure non ha osservato la Sua Parola. Credere davvero significa aprire il cuore a Dio, che è Misericordia e che viene ad accogliere anche le mie tenebre, anche il mio peccato. Credere significa stare davanti a Dio con la consapevolezza e la certezza che Dio è la soluzione per la mia infelicità. Credere significa stare davanti a Dio riconoscendo in Lui la luce che vuole brillare proprio nelle mie tenebre. Credere non significa partecipare a dei momenti, o durante la giornata recitare quattro, cinque preghierine una dopo l’altra. Credere significa fare della propria esistenza il luogo dove Dio è libero di agire, dove ci lasciamo guardare da Dio per quello che siamo, senza maschere, finzioni, senza dover dimostrare niente a nessuno. Credere è quando ci lasciamo illuminare dalla Luce di Dio proprio nelle nostre tenebre. Gesù, infatti, più avanti lo dice: «Chi non crede è già stato condannato perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce». Credere, significa, allora, amare più la luce che le tenebre. Sembra facile, perché a volte diventiamo così stupidamente astuti da non accorgerci nemmeno più che siamo nelle tenebre, anzi scegliamo di vivere in una terra di mezzo. Viviamo un po’ nelle tenebre, poi però andiamo la domenica a Messa, parliamo male di tutti, però poi ci andiamo a confessare. Credere significa, invece, uscire dalle tenebre, anzi fare entrare la luce nelle mie tenebre e cominciare a chiedere a Dio di illuminare ogni ombra, perché credere comunque ci conviene, in qualunque modo ci conviene. Se io, infatti, continuo a vivere nelle tenebre e Dio esiste veramente (ed esiste veramente), alla fine non ho ricevuto niente né la gioia in questa vita, né la gioia eterna. Se io, invece, scelgo di credere e mi faccio illuminare da Dio, ho guadagnato sempre pure se, per assurdo, Dio non esistesse, perché ho vissuto una vita ispirata a dei valori grandiosi come solo il Vangelo sa far vivere. Entrare nella luce, far entrare la luce nelle tenebre è il momento in cui metto tutto nelle Mani di Dio, anche quello che è doloroso. Non so se siete mai stai in una stanza buia di giorno: quando poi all’improvviso sei costretto ad uscire fuori, o qualcuno apre la tapparella e la luce ti entra subito negli occhi, ti copri gli occhi, cominci a lacrimare, senti il dolore, senti il bruciore. Credere significa passare attraverso quel bruciore, credere significa che oggi mi riconosco bisognoso di essere illuminato in qualche dimensione della mia vita, e smetto di illudermi. Spesso pensiamo che se su dieci cose che facciamo, otto sono buone e due no, siamo comunque delle bellissime persone e non facciamo nulla di male. Faccio un esempio: un uomo è bravissimo a lavoro, riempie di regali la moglie e i figli, ma ha una relazione extraconiugale. Quella tenebra, siccome noi non siamo fatti a scompartimenti, ma siamo persone in spirito, anima e corpo, inficia tutta l’esistenza, che diventa interamente tenebra. Fare entrare la luce significa passare attraverso quel dolore della prima illuminazione, perché quando esci dalla stanza buia, dopo quel dolore agli occhi, cominci a vedere quanto è bello vivere alla luce!

Gesù viene, allora, a illuminare la tenebra, ma noi siamo disposti a passare attraverso il dolore della luce? A metà di questa Quaresima siamo chiamati a illuminare le nostre tenebre, magari anche sentendo dolore. Non so quale sia la tua tenebra, la mia la conosco e chiedo a Dio che la illumini, ma non so quale sia la tua. Qualcuno di noi potrebbe essere attaccato al denaro, qualcuno a un vizio, a una relazione sentimentale sbagliata, un’amicizia sbagliata che ti porta al male, che ti porta sempre a cose stupide, banali. Qualcuno potrebbe essere caduto nei mali del terzo millennio, i mali di internet, gioco d’azzardo, incontri online, pornografia. Qualcuno potrebbe avere un lato terribile del proprio carattere, un modo di trattare la moglie con urla, con sufficienza, con parolacce. Ci sono tante tenebre che è doloroso lasciare perché ci siamo adeguati, ci siamo giustificati anche davanti a Dio. Chi fa il male non riesce a vedere più la luce. Oggi, invece, Gesù ci chiede di guardare quei serpenti e di accendere la luce in questa stanza buia. Se non riesci ad uscire fuori al sole, almeno apri la tapparella, uno spiraglio. Dio ce lo chiede per una gioia più grande, una gioia che nessuno ci può dare. Non illudiamoci, allora, facciamo splendere la luce, perché in palio c’è il premio di una gioia che non abbiamo mai provato nella vita.




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Gianluca Coppola

Gianluca Coppola (1982) è presbitero della Diocesi di Napoli. Ha la passione per i giovani e l’evangelizzazione. È stato ordinato sacerdote il 29 aprile 2012 dopo aver conseguito il baccellierato in Sacra Teologia nel giugno del 2011. Dopo il primo incarico da vicario parrocchiale nella Chiesa di Maria Santissima della Salute in Portici (NA), è attualmente parroco dell’Immacolata Concezione in Portici. Con Editrice Punto Famiglia ha pubblicato Dalla sopravvivenza alla vita. Lettere di un prete ai giovani sulle domande essenziali (2019) e Sono venuto a portare il fuoco sulla terra (2020).

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