Educazione

Che male c’è?

Nessuno si sveglia la mattina dicendo: “Oggi scelgo il male”. Il male entra in scena in silenzio. Non fa rumore, non ha bisogno di slogan. Gli basta cambiare nome. È così che funziona: si cambia il linguaggio, e la coscienza si adatta. Si sostituiscono le parole scomode con formule rassicuranti. Peccato diventa debolezza. Colpa diventa esperienza. E alla fine, il male non esiste più. Non perché sia scomparso, ma perché non ha più un nome. È il miracolo linguistico del nostro tempo: le parole non descrivono più la realtà, la creano.

Silvano Fausti lo chiamava “delitto semantico”. Le parole sono diventate elastiche: si allungano, si tirano, si svuotano. E quando le parole perdono il loro significato originario, anche la realtà perde i contorni  La verità diventa una faccenda privata, un’opinione. La libertà si trasforma in assenza di vincoli, anzi, nel diritto di non avere limiti. L’amore? Basta che ci sia “consenso” e tutto diventa accettabile. Quanto al peccato, il termine è ormai un reperto archeologico. Scomodo, giudicante, imbarazzante. Roba da confessionali bui e sensi di colpa patologici, mica da generazioni liquide e psicologicamente fluide. Una parola fuori moda, che stride nei contesti moderni, dove la fede deve essere morbida, inclusiva, possibilmente silenziosa.

Ma le parole non sono solo etichette. Quando si cambia il nome alle cose, cambia anche l’effetto che ci fanno.

Se ogni scelta è legittima solo perché “personale”, allora tutto è giustificabile. Nessuno è mai veramente responsabile. Il risultato? Una coscienza disinnescata. Una morale ridotta a questione di preferenze.

Lo si vede ovunque. Nella politica, dove la corruzione si chiama strategia. Nell’economia, dove l’evasione è diventata un atto di sopravvivenza. Nella comunicazione, dove il linciaggio verbale si difende come libertà d’espressione. Nell’educazione, dove ogni giudizio viene evitato come fosse un crimine contro l’autostima. Le scuole, sempre più simili a palestre di relativismo: dalle elementari all’università si evita ogni giudizio netto, ogni distinzione tra giusto e sbagliato. 

A furia di cambiare il nome alle cose, si smette di vederle. È successo con l’aborto. Una parola carica, definitiva, tragica. Che diceva troppo. Così è stata sostituita con una sigla tecnica, neutra, clinica: IVG. Una manovra chirurgica, anche nel linguaggio. Così quel che prima appariva come una scelta estrema, ora diventa un diritto da proteggere a ogni costo. Persino a gravidanza quasi terminata. Ma se la parola non fa più tremare, allora non resta più nulla a proteggere la coscienza.

Anche nelle relazioni basta “volersi bene” per giustificare qualsiasi gesto, anche il più distruttivo. E via, una cascata di “che male c’è?” a giustificare ogni atteggiamento, ogni scelta. Che male c’è se lui controlla ogni messaggio, tanto è geloso perché ci tiene? Che male c’è se si va a letto subito, tanto ormai lo fanno tutti? Che male c’è se si deride un compagno online, se si insulta nei commenti, se si alza il tono? Che male c’è se si prende in giro la fede altrui, tanto è libertà di espressione?

La lista potrebbe continuare. Basta un po’ di emotività, un pizzico di retorica sentimentale, e il male si copre di buone intenzioni. 

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Il male non ha più bisogno di nascondersi. È bastato renderlo familiare. E così, in mezzo a parole che non significano più niente, si cresce disorientati. Anestetizzati. Un’intera generazione immersa in un rumore continuo, in cui si ride anche delle cose che dovrebbero far piangere. Si scrollano video che ironizzano su tutto: violenza, dolore, morte. Contenuti “ironici”, “solo per riderci su”. Anche la tendenza a mostrare la sofferenza, a esibirla, a consumarla come se fosse intrattenimento, è figlia dello stesso pensiero. Morti in diretta, confessioni strazianti, tragedie familiari usate per fare numeri. Basta che sia emozionante. Basta che si pianga. Il dolore per aumentare views, che scivola nella spettacolarizzazione, e lì si consuma.

Anche il male, quando fa audience, diventa tollerabile. Non si impone, seduce, parla il linguaggio della normalità, usa i filtri giusti, si traveste da scelta personale. E quando non fa più paura, non resta che abbracciarlo. Lo si giustifica. Lo si difende. Lo si elegge a stile di vita.

La Bibbia ci mostra la stessa dinamica nella Genesi: Eva non desidera l’albero proibito finché non dialoga con il serpente. Solo dopo averlo ascoltato inizia a guardarlo in un altro modo, lo vede buono da mangiare, bello da vedere, desiderabile. Quell’albero era lì anche prima, ma è cambiato lo sguardo. Il peccato non entra con la trasgressione, ma con la seduzione. Ti convince che non è poi così male, che è normale, che è anche bello. E quando il male smette di inquietarti, quando non lo riconosci più, è già diventato parte di te. Non sentire più la voce della coscienza è il segnale più grave. Perché significa che l’anestesia è riuscita. Una ragazza mi diceva: “So che secondo Dio questa strada non è giusta, ma tutto attorno mi dice il contrario. Alla fine mi viene il dubbio: forse sono io a essere troppo rigida?”.

È questa la battaglia più feroce oggi: quella del pensiero. Siamo circondati da una cultura che ci dice come pensare, che ci bombarda con una sola narrazione. E quando ascolti sempre e solo la stessa voce, finisci per crederci, anche se all’inizio ti sembrava stonata. Non è una novità. Tutti i regimi, nella storia, hanno fatto così: lavaggio del cervello a colpi di ripetizione. Oggi non servono più le dittature: basta l’algoritmo.

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La libertà non è poter fare tutto, ma avere il coraggio di scegliere il bene, anche quando tutti scelgono altro. Ma se perdiamo il senso del bene e del male, la libertà diventa una trappola. Non scegliamo più. Seguiamo. Siamo consumatori di emozioni, non protagonisti delle nostre scelte.

Per questo dobbiamo tornare a chiamare le cose col loro nome. Non per giudicare gli altri o alimentare il senso di colpa, ma per salvare noi stessi. Chi tace sul male per non disturbare, per non essere impopolare, non è più misericordioso: è complice. Come un medico che scopre un tumore e ti dice che è solo un raffreddore, per non spaventarti. Ma se non sai contro cosa devi combattere, come puoi scegliere le terapie giuste per salvarti la vita?

Dio non è un’opinione, non è una percezione, non è un’opzione tra le tante. È la Verità che rende liberi. E solo chi impara a riconoscere il male e a combatterlo può vivere davvero da uomo libero.




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